Notizie e scritti inediti di Monsignor Pompeo Piva


BIOGRAFIA DI POMPEO PIVA
Nasce a Quingentole (Mantova) il 20 giugno 1933, è il terzogenito di Aldo e Annita Maccari. Nel 1948 muore il Padre per le conseguenze di una aggressione subita da parte di squadristi fascisti negli anni del regime, alla quale Pompeo aveva assistito personalmente. Trascorre gli anni delle Medie e del Ginnasio presso i Salesiani di Ferrara. La positiva influenza del giovane parroco, don Alvaro Mani, lo orienta alla vita sacerdotale. Nell’ottobre del 1952 entra nel Seminario diocesano di Mantova, dove conclude il Liceo e inizia la Teologia. Nell’autunno del 1958 viene mandato al Collegio Lombardo di Roma dove completa i corsi istituzionali e consegue la licenza in Teologia Dogmatica presso l’Università Pontificia Gregoriana. Il 23 Settembre del 1961 l’allora Vescovo, in seguito cardinal Antonio Poma, lo ordina sacerdote per la Diocesi di Mantova, nella sua parrocchia di origine, a Quingentole, diversamente da tutti gli altri compagni di corso. Dopo la Licenza, nel Settembre del 1963, appena tornato da Roma, comincia il suo lungo percorso di insegnante di filosofia e teologia morale presso il Seminario Vescovile, fino al Giugno 1999.
Nel 1976 inizia la collaborazione con i Padri Francescani della provincia Triveneta, con l’insegnamento della Teologia morale Fondamentale, e dei Sacramenti della Riconciliazione e del Matrimonio presso lo Studio Teologico “S. Bernardino” di Verona,  fino al 2003. Quando nel 1982 nasce l’Istituto di Studi Ecumenici "S. Bernardino", con sede prima a Verona e poi a Venezia, gli vengono affidati l’insegnamento dell’ Ermeneutica e metodologia ecumenica, e dell’ Etica ecumenica. Nel 1984 discute la tesi di Dottorato in Teologia presso il Pontificio Ateneo "Antonianum" di Roma, dal titolo: “La fondazione critica della Norma di moralità alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana”,  pubblicata successivamente dalla editrice  LIEF  di Vicenza (1987). Per lungo tempo ricoprirà anche la responsabilità di vice-Preside dello stesso Istituto. Nel 2002, per la riconosciuta competenza in campo ecumenico, fu chiamato a far parte delle delegazione cattolica che a Venezia, sotto la guida dell'allora Cardinale Joseph Ratzinger, il futuro Papa Benedetto XVI, discusse con quella Ortodossa, inviata dal patriarca di Mosca Alessio II, per ricucire i rapporti tra le due Chiese.
Nel frattempo in Diocesi, oltre all’insegnamento in Seminario, ricopre i seguenti incarichi: nel 1970 fu nominato Presidente della Commissione per la Liturgia, l’Arte e la Musica sacra; nel 1971 Esanimatore pro-Sinodale, nel 1974 Canonico Penitenziere, nel 1977 Presidente della Commissione per l’Educazione della Fede, nel 1975 Delegato Vescovile per l’Istituto di “Maria Immacolata delle Oblate dei Poveri” (comunemente conosciuto come le Suore del Gradaro). Nel 1981 fonda e dirige lo Studio teologico per Laici “S. Francesco”, elevato nel 1986 a Istituto di Scienze religiose. Dopo molti anni che ne ricopriva la responsabilità ad actum, finalmente nel 1989 arriva anche il decreto che lo investe quale Vicario Giudiziale della Diocesi.
Nel 1993 in forte dissenso con il Vescovo e per dissociarsi dai metodi ambigui e confusi con cui viene governata la Diocesi, rinuncia a tutti gli uffici diocesani. Ma non resta inattivo. Sono gli anni della feconda collaborazione con l’UCID, l’Associazione degli Imprenditori e Dirigenti Cristiani. L’esperienza mantovana diventa un esempio per tutta l’Italia e nel 2005, cooptato direttamente dall’Assistente Nazionale, il Cardinal Antonelli, viene nominato Consulente nazionale UCID per i problemi culturali.
Nell’estate 2006 cominciano a manifestarsi i seri problemi di salute, che con alterne vicende non lo abbandoneranno mai, fino al momento della morte, avvenuta il 6 Febbraio 2009, presso l’Ospedale “Carlo Poma” di Mantova.
Don Marco Belladelli.
Mantova, 6 Marzo 2009, trigesimo della morte.
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Omelia per le esequie di Mons. Pompeo Piva
Duomo di Mantova, 09/02/09.

LETTURE
1° Apocalisse 7,9-10.15-17.
2° Romani 6,3-9.
+Vg  Matteo 5,1-12
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Ecc. Revv.me, Confratelli nel ministero, Religiose e Religiosi e carissimi Sorelle e Fratelli nella fede in Cristo, anche a nome dei Familiari di don Pompeo innanzitutto vi ringrazio per la vostra presenza numerosa ed affettuosa, che davanti a Dio rende onore e gloria a don Pompeo per tutto quello che egli è stato per se stesso ed ha rappresentato per ciascuno di noi.
Siamo qui per un gesto di misericordia, qual è secondo la fede cristiana il pregare per i morti e il consolare gli afflitti, perché, come abbiamo ascoltato dal Vangelo: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”, anche noi andiamo giorno per giorno mendicando da Dio quella stessa misericordia.

Sono qui a pronunciare queste parole di commiato per esplicito mandato di don Pompeo e vorrei farlo a modo suo, cioè senza quella retorica vanagloriosa, figlia del narcisismo, dell’esibizionismo stucchevole e del politicamente corretto proprio dei nostri tempi, che non gli è mai appartenuta, ma con la semplicità, la sincerità e l’autenticità dell’uomo che non teneva a distanza il suo prossimo, perché non aveva secondi fini, né prioritari interessi personali da perseguire, se non quello di annunciare il Vangelo. E per questo ha saputo accompagnarsi a chiunque lo incontrasse, indipendentemente dalla condizione sociale, culturale e tanto meno quella economica. A tal proposito  voglio ricordare una caratteristica del suo temperamento, forse non a tutti nota: la sua facilità a stringere amicizia con i bambini, ultimo dei quali, il piccolo Denis, il figlio di Michele ed Elena, che affettuosamente lo hanno assistito e sostenuto in questi ultimi tempi di fragilità e di incertezza. I bambini si accompagnano a chi dà loro sicurezza e non s’impone con la forza, ma, rispettandoli, li aiuta a crescere in sapienza, età e grazia, ma soprattutto in piena libertà. Per questo Pompeo non è mai stato un uomo di potere. E non soltanto perché non ha mai ricoperto responsabilità che comportassero il compito di decidere della vita altrui. Non è neanche mai stato un pastore in senso stretto, come lo può essere un parroco o un curato. Eppure la sua dedizione per attirare gli uomini a Cristo non è stata meno incisiva e feconda. Anzi tutt’altro! La nostra presenza oggi qui, tanto numerosa, socialmente, culturalmente e per generazione trasversale, e sinceramente commossa per la sua morte ne è il segno più evidente.
Mi viene da pensare: che cosa sarebbe stato il suo ministero in termini di fecondità pastorale, se questo suo carisma avesse incrociato quelle responsabilità a cui di volta in volta è stato candidato senza mai raggiungerle? Forse non si è capita, e quindi nemmeno valorizzata, questa sua capacità di stare con gli uomini del suo tempo e di camminare insieme con loro per condurli a Cristo, tanto che a volte è bastato poco, una predica, una lezione, una conferenza, il confronto per un consiglio, una confessione o anche un incontro fortuito per diventare per molti un punto di riferimento certo, chiaro, forte e soprattutto che non tradisce. Si è preferito dire che non era capace di occuparsi delle cose concrete. Meglio lasciarlo in mezzo ai suoi libri.
Affidiamo tutto ciò che non è stato a quella Divina Misericordia alla quale ci appelliamo sempre all’inizio di ogni nostra celebrazione eucaristica, e che ora tutti ci comprende, e veniamo a ciò che realmente sono stati la vita e il ministero di don Pompeo.

Una vita consumata nello studio e per l’insegnamento. Trentacinque anni di docenza in Seminario. Oltre alla sua competenza specifica della Filosofia e Teologia morale, ha insegnato anche Storia della Chiesa, Patristica, Sacramentaria, per formare intere generazioni di preti ad essere in grado di fare propria quella che era stata la grande sfida del Concilio Vaticano II, coniugare per l’uomo di oggi quel rapporto tra fede e ragione, tra Chiesa e modernità, che a causa di quel processo sempre più incalzante, che va sotto il nome di secolarizzazione, si era così profondamente e sostanzialmente incrinato. Fu l’allora Vescovo di Mantova, Mons. Poma, nella sua qualità di Padre Conciliare, a renderlo partecipe, nel pieno del suo vigore giovanile insieme ad altri confratelli, di quella straordinaria e storica stagione che fu il Concilio Vaticano II per la Chiesa e per il mondo. Si trattava di far passare quello spirito nella mente e nel cuore del clero, compito per il quale erano necessari competenza, preparazione, entusiasmo, passione e spirito di sacrificio, non alieni all’animo di don Pompeo.
Ma si sa: come in medicina i peggiori pazienti sono i medici, così in pastorale le pecorelle più difficili da guidare ordinatamente all’ovile siamo proprio noi preti. Strada facendo cambiarono prima le persone e poi le circostanze. Le resistenze iniziali si trasformarono in un vero e proprio conflitto. Furono anni difficili per la Chiesa di Mantova, nei quali all’entusiasmo si sostituì la disillusione, e al coraggio delle scelte si preferì la routine di sempre. E’ inutile nasconderlo qui, davanti alla sua bara: in tutto questo don Pompeo pagò un prezzo alto, quasi da capro espiatorio.
Ma come si dice, il Signore chiude una finestra, per aprire una porta. Così cominciò il secondo grande capitolo della sua vita, l’impegno nell’ecumenismo. Chiamato dai Padri Francescani della provincia Triveneta diventa uno dei principali animatori dell’Istituto di Scienze ecumeniche di “San Bernardino” di Venezia, ricoprendo fino alla fine l’incarico di docente e per molti anni anche quello di vice-Preside. Oltre all’insegnamento istituzionale, i rapporti ecumenici lo proiettano in un orizzonte europeo: da Ginevra a Istanbul, da Bucarest a SanPietroburgo. Nel frattempo non abbandona Mantova, dove sempre in collaborazione con i Padri Francescani fonda e dirige l’Istituto di Scienze religiose “S. Francesco”, indicato a suo tempo ad esempio per tutta l’Italia.
Da ultimo è venuto l’impegno nell’UCID, il confronto con il mondo dell’imprenditoria e dell’economia e la sua animazione cristiana. Una realtà lontana e distante da tutto quello che abitualmente occupa l’agire pastorale di un prete ed apparentemente refrattaria all’incontro con il Vangelo. Anche in questo caso, sull’esempio del Seminatore evangelico, la sua carità pastorale, unita alla sapienza e competenza di sempre, ha saputo trarre dal buon terreno frutti abbondanti, tanto da suscitare un processo virtuoso di emulazione a livello nazionale.
In tutti gli ambiti in cui don Pompeo si è impegnato, ci ha sempre testimoniato il suo amore per la Chiesa. Quella Chiesa sacramento di salvezza e mistero dell’incontro degli uomini con Dio, che si realizza e si manifesta non in astratto, ma nella concretezza della vita e della storia di ciascun credente e in particolare nella comunione umana e mistica che ci lega gli uni gli altri nella Comunità locale. Sì, in questa Chiesa di Mantova per la quale ha speso la sua vita e che non ha mai voluto abbandonare, anche quando con lui si è mostrata più matrigna che Madre. A volte nei suoi confronti ho fatto la parte della moglie di Giobbe, incitandolo alla ribellione: “Rimani ancor fermo nella tua integrità?” (Gb 2,9). A questo proposito voglio far risuonare ancora tra noi le sue stesse parole. Era il 1 settembre 1988, era stato incaricato di dettare le meditazioni iniziali durante la Settimana di Pastorale. Parlava della perseveranza nella fedeltà a Dio e, parafrasando le lettere alle sette chiese dell’Apocalisse, disse:
Su coraggio! Alza la testa Chiesa di Dio che sei in Mantova!
Il tuo Dio, nella sua infinita misericordia, si è ricordato di te.”.
Un accorato grido di amore che scosse i presenti, come lo Spirito Santo che a Pentecoste ha riempito il cuore degli Apostoli per infiammarli dell’ardore divino. Fu la sua ultima partecipazione ad un incontro solenne ed ufficiale della Chiesa mantovana. Quello che seguì fu solo l’oblio. In quegli anni per un prete, frequentarlo o essergli anche semplicemente amico, non giovava.

Gli ultimi dieci anni sono stati segnati dal graduale e inesorabile peggioramento della salute. Prolungati ricoveri per patologie sempre diverse e sempre più complesse, fino all’epilogo di venerdì scorso. Il peso della malattia lo ha ancor più affinato spiritualmente, ben oltre il valore stesso della sua cultura e della competenza teologica. Se ne sono accorti in tanti che ascoltavano la sua predicazione settimanale, in Sant’Andrea prima e in Duomo poi. Un vero dono di grazia attraverso il quale ci si sentiva docilmente conquistati nel cuore e nella mente alle ragioni della fede e della speranza nel Signore Gesù.

L’Apocalisse ha detto che il Signore tergerà ogni lacrima dai loro occhi.
Ora che le mortificanti esperienze della sofferenza fisica e morale sono finite, ora che stai al cospetto del tuo e nostro Redentore e del vero Consolatore, ora che hai trovato la pienezza della consolazione, vivi sereno in quella mitezza evangelica, che non hai mai perso, nemmeno nei giorni più duri della prova fisica e morale. Vivi per sempre in quel Regno di Dio, che con tanto ardore ci hai insegnato a desiderare sopra ogni cosa, preparato dal Signore Gesù per i piccoli e i poveri in spirito come te. E non dimenticarti di noi. Ci aspettano tempi di prova e di difficoltà forse ancora maggiori. Ottienici dal Signore la tua stessa docilità, mitezza, laboriosità e intelligenza pastorale.
Ciao Pompeo!
Don Marco Belladelli.
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 Il ricordo di alcuni amici
In occasione del trigesimo alcuni amici hanno pubblicato un piccolo fascicolo In memoria di Mons. Pompeo Piva. Ricordo di un Maestro, nel quale sono state raccolte testimonianze e scritti inediti di don Pompeo, che riporto qui di seguito. 
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Ciò che è meraviglioso delle testimonianze che seguono è la varietà di modi con cui viene proposta la personalità di mons. Pompeo Piva, o semplicemente di Pompeo, come lo si chiamava abitualmente. Non c'è stato il tempo di dividere i temi su cui offrire il proprio ricordo. Ognuno ha scritto di getto. Ciononostante esce un affresco di ricordi, sensazioni ed emozioni straordinariamente ricco.
Pompeo ha ricevuto molto dalla Provvidenza, ma ha anche restituito molto. La riconoscenza di chi lo ricorda, lo testimonia in modo amplissimo. Sicchè la prima idea ordinatrice che il lettore si fa è quella di trovarsi di fronte ad un Maestro, di cui emergono tutte le caratteristiche salienti: il rispetto per la Verità, la docenza rigorosa ma paziente e sempre sensibile al discente, l'attenzione fondamentale al dialogo tra le Chiese e verso la cultura moderna, il grande amore per la Chiesa, la curiosità sgombra da formalismi, l'insegnamento continuo ed umile, realizzato magari anche per vie indirette. Un Maestro appunto, perché capace di parlare a tutti ed illuminare tutti. Un Maestro anche pregiudizialmente incompreso.

Enzo Reni (Imprenditore).
La morte lascia sempre dei vuoti, ma in qualche caso il vuoto è maggiore quando la persona che viene a mancare ha profuso a piene mani, bontà, saggezza, sapienza, a tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerla e frequentarla.
Sto parlando di Mons. Piva, di un illustre ed apprezzato teologo, che ha condotto per mano l'UCID di Mantova e l'ha portata ad un livello di prestigio nazionale.
Il suo volume " SOGNO DI UN IMPRENDITORE CRISTIANO" è per me un passaggio fondamentale per dimostrare come l'imprenditore possa fare il proprio lavoro mirando al rispetto dei principi etici che i Vangeli ci hanno tramandato.
Monsignor Piva ha nobilitato il nostro lavoro di imprenditore, perchè ci ha insegnato che il Creato è stato dato da Dio all'uomo per poter essere perfezionato senza venir meno al debito verso la coscienza; ci ha insegnato che quando l'imprenditore concepisce la propria impresa come mezzo di progresso economico, il progresso non riguarda solo l'azienda ed i dipendenti, ma tutta la comunità.
L'impresa quindi può essere pensata in funzione di arricchimento personale.
Don Pompeo ci ha insegnato che a qualsiasi livello di collaborazione, è importante il rispetto della persona: questa è la regola di un' Imprenditore Cristiano. Possiamo credere allora che -anche se non semplice da mantenere- i valori umani non sono in antinomia con la disciplina e l'efficienza.
Tutto questo in un quadro politico e sociale di solidarietà ed apertura nei confronti del mutare della realtà, dei contrasti di opinioni, di differenti credenze religiose. Era maestro nell'insegnare il dialogo.
In questo modo, se la società e la scienza sono in continuo divenire, al centro di tutto può esserci la valorizzazione della persona. In questo modo è possibile ottenere un mondo un po' più giusto.
Non ho evidentemente reso giustizia alla ricchezza di valori che Don Pompeo ci ha lasciato, nel Suo tipico stile fatto di una leggera ironia ma anche di umiltà. Ci ringraziava perchè, a Suo dire, lo avevamo introdotto nel mondo dell'impresa, un mondo che molta parte della chiesa giudica solo dall'esterno e quindi col pericolo della superficialità. Superficiale, lui non lo fu mai.
Don Pompeo non Ti dimenticheremo mai.

Prof. Placido Sgroi  (vice-Preside ISE “S. Bernardino” Venezia).
Non è facile scrivere queste righe così poco tempo dopo l'annuncio della morte di d. Pompeo, per chi ha avuto, come molti di coloro che frequentano l'ISE, l'occasione di godere della sua presenza amicale, oltre che del suo talento di teologo, per lunghi anni; la presenza di d. Pompeo all'ISE si intreccia con la storia delle sue origini e con la sua fase veronese. Don Pompeo ha accompagnato la vicenda dell'ISE da molti punti di vista, come teologo, aprendo coraggiosamente la via alla ricerca e all'insegnamento dei temi etici in ambito ecumenico, temi che si sono poi rivelati decisivi per il dialogo fra le chiese, come docente, noto per la sua capacità di coinvolgere chi ascoltava la sue lezioni, mai banali o puramente accademiche, ma attraversate dalla sua profonda umanità e perizia, che venivano anche dalla sua lunga esperienza di confessore (attività che ha sempre praticato nella convinzione di trovare in essa uno dei luoghi privilegiati di esercizio dei suo ministero presbiterale), come relatore, accogliente e paziente di molte tesi e di molti studenti che in lui trovavano più di un punto di riferimento intellettuale, come vice-preside dell'ISE, sempre disposto ad offrire il consiglio che veniva dalla sua lunga consuetudine di docenza, ma anche di amicizia personale con coloro che negli anni si sono succeduti nei diversi ruoli istituzionali dell'istituto.
Due aspetti meritano in particolare di essere sottolineati della sua vicenda di uomo e teologo: la sua passione per la la verità e il suo sofferto amore per la chiesa. La passione per la verità, che don Pompeo ha interpretato come continuo tentativo di comprendere i modi, sempre più ricchi e vari della immaginazione umana, in cui lo Spirito manifesta il Risorto all'umanità, ponendo proprio l'evento della salvezza alla radice della vita etica del cristiano; evento della salvezza che per d. Pompeo era capace di far crollare le nostre sicurezze standardizzate ed avviarci ad una più profonda e personale ricerca della volontà di Dio. Una ricerca che per don Pompeo si estendeva dall'etica, tanto indagata, alla spiritualità, che egli non riteneva essenzialmente diversa dalla riflessione morale, all'economia, in cui il sogno di un imprenditore cristiano si univa alla capacità di ascoltare le concrete storie degli imprenditori per leggerle alla luce di una spiritualità della stessa vita economica, alla ricerca sul senso della vita matrimoniale, che aveva occupato i suoi primi interessi teologici. Il suo sofferto amore per la chiesa che egli ha sempre sognato come realtà capace far trasparire il volto di Cristo nelle sue molteplici manifestazioni e che faticava ad accettare divisa, conflittuale, attardata nella difesa di posizioni che potevano sapere più della volontà di conservare che del rischio di percorrere solidalmente la storia degli uomini e delle donne; per cui l'ecumenismo era medicina non solo alla frattura fra le chiese, ma luogo dove la voce dello Spirito poteva parlare anche all'interno delle singole chiese.
Chi ha potuto conoscerlo come docente e come collega ha potuto imparare dalla sua profonda conoscenza della tradizione teologica, dalla sua capacità di riferirsi, in modo sempre creativo e inusuale a Tommaso e, insieme, ai riformatori, alla Bibbia e al magistero della Chiesa, anch'esso indagato con l'occhio esigente di chi chiede tanta più coerenza quanto più è impegnativo il ruolo di chi si esprime; ha ricevuto anche una lezione profonda di umanità, quella che ha accompagnato lo stesso d. Pompeo in questi ultimi anni di salute malferma, ma sempre di grande lucidità intellettuale e spirituale.
È per questo che, nell'affidare al Signore questo suo servitore, sentiamo insieme, paradossalmente, la nostalgia per la sua parola dotta e incoraggiante, ma anche la concreta presenza dei frutti che il suo lungo magistero ha depositato nella vita della nostra comunità ecumenica.

Carlo Prandi e Giuseppe Papagno (Docenti universitari).
Maria Carta, grande interprete del canto popolare sardo, fu pure una poetessa di valore. Tra le sue composizioni ve n’era una che diceva pressappoco così: <<Quand’ero piccola ci riunivamo, le sere d’inverno, intorno al grande camino. Io vi guardavo uno ad uno e dicevo dentro di me: “Voi non morirete mai”. Invece, uno alla volta, siete usciti in silenzio da quella porta e non avete più fatto ritorno». Don Pompeo faceva parte di quella costellazione di persone di cui si pensava, quando lo si incontrava e lo si ascoltava: «Tu non ci lascerai mai». Troppo importante era la sua presenza, troppo famigliare era l’ascolto della sua parola, pronunciata a voce bassa e sempre pronta a mettersi in ascolto di fronte a qualsiasi obbiezione (ma non per questo meno ferma nell’affermare le proprie tesi), troppo carica di sapienza era la sua capacità di rispondere all’eventuale “dubbio” teologico che gli veniva sottoposto, troppo carico di rispetto di rispetto e modestia era il rapporto con l’interlocutore.
Spaziare dalla Scrittura alla Patristica a S. Tommaso (sempre citato in latino e poi tradotto), alla filosofia contemporanea, era un percorso di andata e ritorno per lui normale e quotidiano. Gli chiedevi una precisazione teorica collegabile alla questione del rapporto tra Islam e scienza? Don Pompeo citava con precisione sia la distinzione di S. Tommaso tra Cause Prime e Cause Seconde, sia Grozio sul modo di leggere la natura “etsi Deus non daretur”: il quadro di riferimento era sintetico e completo.
L’ecumenismo per lui non era soltanto dialogo, ma anche e soprattutto, come dimostrano alcuni suoi saggi inediti di non facile lettura, confronto sui testi seguendo le più moderne teorie ermeneutiche, Gadamer e Ricoeur in testa, che gli erano del tutto famigliari.
Ma vi è una componente dell’impegno teologico di don Pompeo che va sottolineata e di cui metteremo a fuoco due momenti: il primo riguarda il suo avvicinamento al mondo dell’impresa su cui elaborò una serie di riflessioni del tutto inedite nel panorama teologico contemporaneo, e che vanno oltre la cosiddetta “Dottrina sociale della Chiesa”, per cogliere il senso teologico del luogo che può considerarsi il cuore della modernità, fuori da ogni tentazione paternalistica (verso il mondo dei subalterni) e nostalgica (nei confronti della società premoderna).
Il secondo momento è più delicato ed ha trovato parzialmente eco nell’omelia letta in Duomo da don Marco Belladelli. Non v’è dubbio che la riflessione teologica di don Pompeo ebbe talora qualche difficoltà con le direttive del magistero romano – è nota sia la condizione di sorvegliati speciali in cui si trovano attualmente i teologi moralisti, sia la netta ricusazione dell’enciclica Humanæ vitæ da parte di d. Pompeo – ed è pur vero che con il precedente titolare della diocesi vi fu a suo tempo un duro scontro. Ora, tutto questo delicato problema va inquadrato anzitutto nel profondo amore da lui nutrito per la Chiesa, in particolare quella conciliare, di cui fu fedele servitore, sia nella mens  ecumenica da lui acquisita in tanti anni di insegnamento presso l’Istituto Ecumenico Francescano di Venezia e di rapporti interconfessionali ad alto livello che lo portarono a fondare la vita della Chiesa sulla persona e la parola di Cristo – la cristologia fonte dell’ecclesiologia e non viceversa – prima che sulla struttura gerarchica che ne gestisce la dimensione storico-istituzionale.
Un teologo “di confine” dunque – da ciò derivava la complessità di una ricerca inquieta e proiettata nel futuro, ma fortemente radicata nella Tradizione – che ha esplorato nuove vie di interpretazione del dato rivelato con originalità e rispetto per le tradizioni che nella storia, secondo ermeneutiche diverse, hanno manifestato la ricchezza del messaggio originario.  Di qui il fascino di una figura la cui amicizia, ahimé, va ora trascolorandosi nella memoria.
Va aggiunto che, oltre alla sapienza teologica e all’amore per la Chiesa e per la Chiesa mantovana, Pompeo aveva un profondo senso della storia oltre che una vasta conoscenza storica, l’altra radice delle sue riflessioni sul passato: sia quello più profondo, sia quello presente, da lui vissuto sempre con lo stesso spirito di umiltà verso l’uomo e l’umanità e contemporaneamente con quel sano orgoglio intellettuale così raro oggi, dove arroganza e genericità dei discorsi sono ormai diventate un gettito che si riscontra ovunque pari alla violenza delle cascate del Niagara o dell’Iguaçu. Uomini e sacerdoti come Pompeo Piva vanno lasciati liberi come è lo spirito della ricerca che tocca le frontiere, quello spazio dove si mescolano le alterità o le diversità. Cosa e come ricercare se non in questi spazi? Il resto – come purtroppo accade spesso nella ricerca accademica in sé – è solo acclarare l’esistente o, filologicamente, entrare al suo interno senza vedere altro. 
La libertà – la VERA libertà alla ricerca, che deve permettere anche di errare – è sempre stata ovunque un problema là dove poteri di qualsiasi natura difendono spesso più se stessi che la libertà di ricerca. E questi sono tempi in cui i muri saltano ogni giorno e la libertà – la sana e umana liberta di ricerca - è sempre più necessaria per capire ed affrontare un mondo in continuo movimento in ogni campo, da quello religioso a quello scientifico, da quello economico a quello politico, senza tenere conto di quella  paura che ormai serpeggia per l’umanità sempre più incerta e dubbiosa circa il suo futuro.
Che dire ancora alla fine? Uomini e sacerdoti come Pompeo Piva fanno parte dell’umanità che pensa, studia e, perché no, sogna  e noi pensiamo che sarebbero stati una maggiore ricchezza non solo per la Chiesa, ma per la nostra assai più modesta e piccola comunità ecclesiale mantovana se vi fosse stato coraggio, spirito di  tolleranza e comprensione verso la passione della ricerca  che sperimenta, nel lungo arco temporale della storia umana, le strade che si aprono verso il futuro.
Infine, chi lo sa?, forse “Altrove” ci reicontreremo in libertà.

Norberto Ravelli (Insegnante).
Ci siamo incontrati la prima volta un autunno dei primissimi anni Ottanta e mi hai subito spiazzato. Mi ero preparato un sofisticato discorso per introdurre un complesso problema che mi stava a cuore. Mi avevano parlato della tua grande cultura e del tuo rigore in maniera tale che ne ero quasi spaventato. La tua strepitosa biblioteca-casa mi aveva ulteriormente intimidito.
Poco dopo - ma molto poco - che avevo iniziato a parlare mi hai interrotto con un sorriso benevolo, mi hai offerto un caffé fatto da tua sorella - non ti sei mai mosso agilmente tra le cose di casa - e con precisione chirurgica hai centrato la questione in tutte le più sottili sfumature ed implicazioni. Tutto questo con una semplicità e tranquillità che mi hanno mostrato una persona completamente diversa da come  avevo immaginato e forse qualcuno mi aveva descritto.
La mia educazione religiosa preconciliare esigeva “aria nuova” e questa l’ho respirata, pochi mesi dopo il nostro incontro, all’Istituto Teologico di cui eri direttore ed insegnante.
Da qui è iniziata una consuetudine che non si è più interrotta, nemmeno nei passaggi più delicati degli ultimi momenti della tua vita.
Alle tue lezioni e nei nostri incontri privati hai sempre pazientemente risposto a tutte le domande provocatorie, impertinenti ed a volte irriverenti, che ti ponevo. Ero ansioso di approfondire le problematiche etiche la cui esplicitazione ed il cui approfondimento ho sempre considerato, come ben sai, necessari alla mia vita cristiana.
In te brillava la vera vocazione dell’insegnante: un sapere non autocentrato, ma al servizio della crescita dei fratelli.
Mi piace ricordare quando, durante l’esame di antropologia filosofica, apristi improvvisamente la Critica della Ragion Pura, me ne facesti leggere e commentare alcuni passi e mi spingesti a confronti ed approfondimenti che non avevo preparato perché non contemplati. La cosa mi stupì non poco, perché non ne capivo il senso ed inoltre il “colloquio” era durato più di un’ora con altri candidati fuori ad aspettare perplessi il loro turno. La settimana dopo mi dicesti che volevi “saggiare” la mia preparazione prima di propormi l’insegnamento di Filosofia Contemporanea all’Istituto, affermando che su certi temi non si fanno sconti a nessuno e men che meno agli amici.
Anche questo con semplicità e “leggerezza” sconcertanti. Era una tua caratteristica dire e fare cose pesanti con levità.
Mi hai insegnato e testimoniato come essere uomini liberi nella Chiesa e come vivere con gioioso rigore.
Potevi essere burbero e cordiale insieme; sapevi affrontare argomenti di grande complessità con le parole più semplici; temevi l’ignoranza, ma sapevi accompagnare l’ignorante con pazienza. E tutto ciò senza ombra di contraddizione: la tua vita è stata un esempio chiaro della chiamata, che non trova ostacolo nelle specificità individuali, ma, anzi, ne trae il meglio. Di questo ti sarò grato per sempre.

Enrico Aitini (Primario oncologo).
Caro Pompeo, amico caro, in questo momento le parole che sentirei spontanee sono lontane da quanto mi hai aiutato a capire in questi venticinque e più anni d’intensa frequentazione: dialogare, comprendere insieme la nostra finitudine, i nostri limiti, come facevi tu, senza mai salire in cattedra, con l’umiltà di chi si sente discepolo tra i discepoli, di più, povero tra i poveri. Ora le parole che sento dentro di me sono soprattutto quelle del dolore, della rabbia e solo a stento emergono quelle di una profonda gratitudine verso il destino che mi ha portato a bussare alla tua porta, un giorno di febbraio dei primi anni ’80. Io, già medico da alcuni anni, ti chiesi di analizzare con me un testo di Giorgio Manganelli per un esame di laurea in materie letterarie che poi non avrei mai sostenuto. Non mi resi conto che quel giorno stavo iniziando un cammino di maturazione interiore ben più importante di un banale esame universitario. La tua tolleranza, il tuo rispetto, le tue osservazioni che, pur rigorose, non mi costringevano mai ad abbandonare la partita, mi infondevano la forza e l’onestà di ricominciare dopo ogni quotidiano errore, debolezza, fallimento.
Caro Pompeo, vorrei ripetere a te quello che un paziente divenuto negli anni amico sincero, mi disse pochi giorni prima di arrendersi ad una malattia che, insieme, avevamo combattuto e controllato per due decenni. Guardando i miei occhi tristi con i suoi ormai spenti pronunciò queste poche parole: “Amico mio, hai saputo illuminare vent’anni della mia esistenza”. E proprio questo vorrei ripetere a te, a te che mi hai insegnato (anche se non sentivi tuo questo ruolo di maestro) a non aver paura del buio degli errori, delle occasioni perdute, dei compromessi quotidiani, a te che mi hai indicato il difficile cammino di una sincera onestà con se stessi, a te che hai compreso le mie debolezze e le mie contraddizioni senza farmene una colpa, a te, disposto a sopportare anche idee assurde purché questo portasse ad un ascolto reciproco, a te che mi hai costantemente stimolato ad approfondire le questioni etiche più complesse della medicina e della salute, a te che anche a me, come a tutti noi del solito gruppo, hai spiegato le parole di Cristo con quella profondità e quella immediatezza che nessuno di noi aveva mai trovato.
Caro amico, com’è difficile pensare che le nostre sere trascorse a studiare etica, a comprendere la teologia, da oltre dieci anni a questa parte, diventino un ricordo. Com’è difficile non suonare più alla tua porta e quanta solitudine e timore avverto all’idea di non poterti più ascoltare. Com’è difficile accettare di non aver avuto il tempo di salutarti e di ricevere un tuo saluto. Provo a farlo ora, Pompeo, con un grazie infinito.

Don Alberto Buoli  (Parroco di Casaloldo- MN)
Il mio primo impatto con Seminario Vescovile di Mantova non fu facile: provenivo dal mondo del lavoro, e nonostante mi fossi preparato alla teologia con un corso triennale in un Seminario per vocazioni adulte a Trento, mi sentivo a disagio nei confronti dei compagni di classe, che vantavano una buona esperienza di studi classici.
E’ in questo contesto che incontrai don Pompeo, considerato a ragione una delle migliori teste pensanti del Seminario, ma anche il severo ed implacabile censore degli studenti, in particolare durante gli esami quadrimestrali.
Egli aveva preso sul serio il dato conciliare, che esigeva un profondo rinnovamento delle discipline teologiche, volto ad un dialogo franco e leale con la cultura dell’uomo contemporaneo tale da accompagnarla con umiltà nel difficile compito di dare senso e speranza alla vita e al mondo in una prospettiva evangelica. Per la teologia morale questo significava imboccare strade nuove e rischiose dopo secoli di manualistica e di ripetizioni di precetti o di dettami magisteriali. Don Pompeo accettò la sfida. Esigente con noi studenti, ma prima ancora con se stesso, ci educò al primato della Sacra Scrittura, al dialogo con la cultura contemporanea - che accostava con rispetto e senza preconcetti clericali -, alla esegesi precisa e originale del Magistero e della viva Tradizione della Chiesa. Fine cultore di san Tommaso d’Aquino, nell’affrontare i problemi sapeva declinare l’uso della ragione e dell’intelligenza con un sano relativismo. Mai semplicemente ripetitivo delle posizioni altrui, preparava con rigore scientifico le sue stimolanti lezioni, corredate da preziose dispense.
Guardava con sospetto alle nostre “ansie pastorali”, insistendo sulla assoluta necessità di una buona formazione teologica di base per non diventare dei mestieranti.
Dopo trent’anni di sacerdozio, con l’esigenza di dovermi confrontare continuamente con situazioni sempre più complesse, dove le ricette pastorali preconfezionate non reggono, sento oggi il dovere di dire a don Pompeo il mio grazie riconoscente per quello in cui ha creduto – pagando a volte di persona – e che ci ha insegnato.

Alberta Feltrin (studente I.S.E. PD).
Don Pompeo, mio caro, grande amico, maestro e padre,
vorrei tanto rivolgermi a te avendoti di fronte ad accogliermi, ad ascoltare, a correggere  i miei pensieri, a discutere le mie semplici intuizioni, a confrontare i nostri studi, a raccontare tu stesso, come sempre accadeva quando c’incontravamo. Mi manchi tantissimo, anche se ti penso nella gioia della vita piena in cui speravi e che, con la tua esistenza provata dal dolore e dalla solitudine dell’essere spesso incompreso e messo da parte, preannunciavi a quanti, come me, hanno avuto il dono di conoscerti ed il privilegio di divenire tuoi amici.
Da grande maestro qual eri, sapevi fare lezione unendo alla passione per il sapere e all’assiduità nella ricerca una conoscenza autenticata dal crogiolo e dalla concretezza di una vita donata senza risparmio. Continuamente disponibile al dialogo, non perdevi occasione per chiedere a noi studenti d’avere il coraggio di pensare: ci domandavi d’essere critici con umiltà e onesti nel denunciare il negativo, pur senza condannare. Non ti servivano le parole, bastava la tua ricca, affinata sensibilità per farci comprendere ed accettare che solo mettendosi in ginocchio ci si può riconciliare con un’umanità ed una chiesa peccatrici, che spesso fanno dei propri limiti ed ottusità la causa della sofferenza di chi non è assimilato. Ci sollecitavi a guardare all’imprevisto e all’inedito realisticamente, senza paura e con libertà, coltivando le possibilità di dialogo ed autenticità che la storia e la vita di ciascuno lasciano sempre aperte, solo a guardarle oltre la superficie dell’immediato. Ci hai trasmesso la voglia di approfondire e cercare, fiduciosi in una “verità”, la quale non esita a correre il rischio di consegnarsi continuamente agli uomini: grazie!
Ora mi manca il tuo sguardo fermo, capace di entrare in profondità nella mia vita. Mi manca la tua capacità di comunicare sapientemente e con amore, con la quale riuscivi a far sentire significativo chiunque ti camminasse accanto, anche solo per un incontro momentaneo. Quando ti conobbi, qualche tempo fa, nella veste di docente all’I.S.E. di Venezia, non immaginavo certo l’amicizia che ne sarebbe nata e che, in questi anni, non ha mai smesso di stupirmi. Mi  meravigliava che un uomo di tanta cultura e di radicata esperienza com’eri tu, potesse interessarsi ad una semplice studentessa come me, al punto da coinvolgermi nei tuoi studi e riflessioni e nella tua vita, fino a rendermi partecipe anche di molti tuoi momenti difficili. Sapevi chiedere con la spontaneità dei puri, ma, in realtà, ogni tua domanda era per me regalo attraverso cui mi assicuravi una presenza fedele ed autentica, in grado, ogni volta, di arricchire  e riempire la mia mente ed il mio cuore. Tante volte, quando non ti vergognavi di mostrarti fragile e non nascondevi le fatiche della tua umanità, hai suscitato in me un forte senso di riconoscenza e, anche se tu non lo sai, mi permettevi di uscire  da casa tua sentendo crescere dentro di me un’espressione, quasi una preghiera, frequentemente ripetuta da te: “Il Signore è grande!”. Ti ringrazio per questo.
Mi commuoveva il modo in cui ti “consegnavi” alle persone che amavi, senza avere timore di perderti e di disperderti. Chissà se ti sei mai accorto di come questo tuo docile, disarmante abbandono, in realtà consegnasse le persone a loro stesse; ci facesse sentire più veri e più vivi. Capisci perché ora c’è molto vuoto?
Eppure, come una luce flebile-flebile, insieme all’immagine del tuo mite, rassicurante sorriso, si fa lentamente largo in me la calda impressione che tu voglia continuare ad accompagnarci e a fare strada insieme a noi. Vorrei non fossero sensazioni dettate dal dolore e spero che il Dio della vita che ti ha accolto ti faccia star bene e ti conservi in dialogo con noi. Grazie per averci amato. A presto!

Giuseppe Montecchio (Dirigente scolastico).
A distanza così ravvicinata, quando ancora nel cuore urgono sentimenti di dolorosa sorpresa, è difficile fare un rendiconto di quel che è stato per me l’incontro con Mons.Pompeo; un incontro, un rapporto disteso nel tempo, soprattutto in questi ultimi anni, quando alcuni problemi mi hanno portato sulle sue tracce, di maestro, di guida, di condiscepolo alla ricerca della verità.
  Ho frequentato il Liceo in una città diversa da Mantova, l’Università a Milano sono tornato (o arrivato ) a Mantova all’inizio degli anni ’70, ho cominciato solo da allora a conoscere le forze culturali in campo in città; solo da allora ho cominciato a partecipare alla vita della Chiesa che è in Mantova; nella seconda metà degli anni’70 ecco una bellissima iniziativa, tante volte a parole auspicata,ma che solo un prete di straordinario coraggio aveva saputo realizzare, l’Istituto superiore di scienze religiose per laici San Francesco; con il Patrocinio del Vescovo di Mantova e l’ordine dei Francescani della provincia veneta è iniziato un servizio alla comunità mantovana e non solo, che si è affermato per la sua fecondità, è cresciuto negli anni , ha coinvolto la maggior parte delle forze disponibili,  si è fatto apprezzare per quanto ha sempre più autorevolmente realizzato; l’anima di tutto questo, fino ai primi anni ’90, è stato proprio mons.Pompeo.
   Insisto su questo punto perché, dopo il doloroso e non sempre spiegabile distacco da Mantova, Monsignore ha continuato il Suo lavoro di animatore , di docente, di costruttore di relazioni ad alto livello a Venezia, in un ambiente di certo più stimolante, più internazionale, più aperto e disposto al confronto con le idee degli altri: voglio dire che l’attività di docente degli ultimi anni non è stato un ripiego, al contrario, un realizzarsi più universale dello spirito già presente a Mantova. E in che cosa consisteva questo spirito?
   Innanzitutto un grande amore per la Chiesa; quale che fosse il luogo in cui era chiamato a servirla, pur in mezzo a molte umane amarezze, Pompeo l’ha sempre fatto con immutata fedeltà e fervore, convinto com’era che Dio ha una logica assolutamente più grande della nostra miseria umana e che a Lui, solo a Lui alla fine bisogna rendere conto;la Sua Chiesa non è solo quella delle vicende storiche che in Occidente ed Oriente rischiano di apparire “umane, troppo umane”, ma è quella che radicandosi in Lui non si arresta  alle appartenenze storiche consolidate e si ritrova inaspettatamente in un’infinità di situazioni e di persone.
  In secondo luogo, tale amore era contemporaneamente una passione intellettuale per la ricerca della verità, ovunque posta,e una volontà di capire il diverso, il mondo nella sua autenticità: ne fanno fede la sua grande biblioteca, le sue letture che spaziavano nei campi più diversi, anche se soprattutto in campo etico e filosofico.  Su questo terreno ci siamo incontrati, nella ricerca dei contributi  più  profondi dello  spirito contemporaneo, convinti che la laicità fosse un valore primario, non derivato, della Chiesa, del mondo.
   Da ultimo:lo spirito di amicizia, profondo, essenziale,con tutti, anche con la povera gente (povera intellettualmente, s’intende), bastava che ci si facesse intendere tra quelli che la verità non la posseggono, ma la desiderano;tra coloro che la verità non la manipolano o cercano di usarla contro qualcuno, ma la riconoscono come un dono grande e prezioso “…siamo poveri servi…”.
Grazie, mons.Pompeo.                              

Adelelmo Lodi Rizzini (Dirigente aziendale)
Ho conosciuto Pompeo Piva appena dopo la conclusione del Concilio Vaticano quando ero ancora studente medio e mi appassionò all’argomento senza impormi alcuna visione. Poi mi allontanai dalla frequenza religiosa negli anni caldi attorno al ’68.
Ripensai solo attorno al 1990 a reincontrare mons. Piva che avevo diverse volte ascoltato alla messa domenicale delle undici in S. Andrea: una predicazione di grande qualità, forse allora un po’ troppo dotta e con qualche punta in più del necessario. Sono rimasto affascinato da quello che ritenni essere il suo modo di porsi verso la Scrittura, che doveva essere improntato a totale fedeltà al messaggio originario. Il problema è proprio però quale sia il contenuto originario.
La Scrittura non arriva a noi nella sua originalità e, nella sua espressione letterale, essa sfugge ad una riapplicazione lineare ai problemi dei nostri giorni. Essa va dunque sempre “pulita” di interpretazioni successive e ricontestualizzata per essere utile alla nostra aggiornata interrogazione. In forza della sua intelligenza e della sua cultura, Pompeo Piva sapeva porre all’ascoltatore il risultato di queste operazioni sul testo sacro in modo semplice e lineare ma, contemporaneamente, senza venir meno al rigore.
Ritengo che chi si sia predisposto con animo sgombro ed impegnato ad ascoltare le spiegazioni di Pompeo ne abbia tratto un grande risultato: la scrittura sembrava su misura per ciascun presente e per la sua coscienza. Aveva liberato la Scrittura e la Scrittura veniva incontro alle coscienze per farne soggetto altrettanto libero: questo ha sempre urtato qualcuno dei presenti alle sue famose prediche in S. Andrea. Mi ricordo che un insegnante delle superiori scrisse addirittura una lettera sulla Gazzetta lamentando che “l’immensa cultura” del monsignore era già di per sé un fattore condizionante le coscienze dei presenti non abili a sostenere un dialogo paritario!
Alla fine della predica, era uso auspicare per tutti (cioè per ciascuno singolarmente) l’aiuto dello Spirito santo affinché sostenesse la comprensione del Mistero: insomma lui aveva elaborato una proposta, ma doveva essere sempre il singolo tramite lo Spirito a mettersi sul suo specifico cammino di salvezza.
Non ho mai sentito una volta mons. Piva far leva sull’emotività dei presenti o richiamarli all’esigenza di un particolare atteggiamento devozionale o affidarsi ad una qualche espressione trionfalistica. Il Mistero di Cristo non ne ha alcun bisogno.
Sono convinto che quella sua fedeltà alla Scrittura ne abbia fatto un uomo di Dio, aldilà delle fragilità –molte immeritate- che qualcuno poteva imputargli. Io mi sono sentito educato, senza che minimamente mi sia sentito diminuito nella mia libertà. Posso solo ringraziarlo per tutto questo.
Una chiosa finale è dovuta per tutti noi, dal suo esempio. Se c’è una “merce” che siamo poco disposti ad accettare è l’altrui intelligenza ed i frutti che essa produce: anche se usata ingenuamente e senza presunzione, l’altrui intelligenza spesso diventa un fattore di separazione a causa della nostra indisponibilità. Questo fatto procura grande sofferenza in chi subisce e la immotivatezza della discriminazione spesso deprime definitivamente le persone prese di mira. Nonostante abbia spesso pagato per le sue qualità, Pompeo trovò sempre anche la forza di ricominciare con nuove avventure senza venir meno al suo impegno di coscienza di essere uomo del Mistero e di grande cultura per essere utile alla libertà spirituale degli altri.
Il ricordo della sua predicazione costituisce ora un bene di cui ognuno di noi può fare eredità nel modo migliore.

Giampietro Trebbi.
Caro Peo, non voglio fare nessun atto d’amore postumo e menzognero. Non ne ho bisogno e tu lo sai: niente falsità. Lascio ad altri tale squallida e meschina usanza. Si sono letti riconoscimenti importanti della tua ricchezza, delle tue capacità, del tuo pensiero, espressi dagli “amici di parrocchia” e non. Riconoscimenti tardivi, falsi e bugiardi, di stampo cattolico e di circostanza. Comunque.. nessuna meraviglia. L’avevamo previsto nelle nostre conversazioni premonitrici di un “dopo festival” (la vita terrena) all’insegna del rammarico e del rimpianto per la perdita del tuo illuminato pensiero.
Ebbene sì: tanti complimenti e via andare.
Ma noi sappiamo che non è così, che non è mai stato così. Noi sappiamo che ai tuoi “amici di parrocchia” il tuo pensiero cristianamente libero non è mai piaciuto.
Lo ha ribadito don Marco Belladelli nella sua omelia da te affidatagli nella certezza che non avrebbe mai tradito o mascherato ciò che è stato.
Considerazioni amare:”In quegli anni per un prete, frequentarlo o essergli anche semplicemente amico, non giovava”.“Meglio lasciarlo ai suoi sogni e ai suoi libri”. Un’omelia in cui le riflessioni dell’estensore sono state liquidate dalla “Cittadella”, il settimanale dei cattolici mantovani, come “valutazioni di taglio personale”. Ecco fatto amico mio. Ti hanno confermato così,(involontariamente?), nella certezza della pena. La cosiddetta Chiesa che scalda i cuori! Ovvero: l’arroganza del Potere. Ma qualsiasi amore vissuto rimane in memoria e tu rimarrai nella nostra e nel cuore di tutti coloro che ti hanno frequentato senza ipocrisia e senza Potere.  ... tuo Piero.

I Familiari.
Non è facile trovare le parole giuste in occasione di una ricorrenza; a maggior ragione se è quella che stiamo vivendo insieme oggi. Il ricordo di don Pompeo.
Per ricordare chi non è più tra noi non serve aspettare l’occasione o la ricorrenza della morte. Ce ne accorgiamo sempre di più ogni giorno che passa non vivendo più, insieme a lui, quella quotidianità che fino a pochi giorni fa ci era consona. Ora è il momento dei ricordi che ci devono aiutare a sentire ancora la sua presenza tra noi; ora è il momento di valorizzare i suoi insegnamenti coniugandoli con l’armonia famigliare che ha sempre tra noi ostentato.
Le memorie ed i bei ricordi di una vita trascorsa insieme ci devono aiutare ad andare avanti; proseguendo quel cammino di vita che avevamo prefissato grazie a lui e che ci ha sempre indicato con chiarezza e semplicità.
I confronti pacati e i consigli che ci ha donato, innanzi alle difficoltà quotidiane, saranno nostro esempio e guida.
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Bibiografia di Pompeo Piva

Pubblicazioni

  • Problemi del matrimonio, Quaderni di Teologia morale, Ed. Cittadella, Assisi 1973.
  • Battesimo-Conversione-Imitazione-Sequela-Matrimonio, in Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Roma 1973.
  • Teologia Morale generale o delle categorie morali fondamentali, Ed. Ut Unum Sint, Roma 1981.
  • Panorama degli aspetti religiosi della sessualità, in AA. VV., Attualità in sessuo-logia, Ed. Grassi, Mantova 1983.
  • L'atteggiamento fondamentale del cristiano nella comunicazione veritativa, in AA.VV., Verità di Cristo, Verità dell’uomo, Ed. L.I.E.F., Vicenza 1983, pp. 294-310.
  • Sessualità, in Dizionario Teologico Interdisciplinare, vol. 3, II.a ed., Ed. Marietti, Torino 1985.
  • Il problema della giustizia e la pace, in AA. VV., Costruttori di pace. Seminatori di giustizia, Ed. L.I.E.F., Vicenza 1988, pp. 79‑101.
  • Persona umana e norma morale, Ed. LIEF, Vicenza 1986.
  • Malattia, eutanasia, morte, Ed. Cittadella, Assisi 1992.
  • L’evento della salvezza fondamento dell’etica ecumenica, Ed. Messaggero, Padova 1997.
  • La Parola suscita la vita di fede, in AA.VV., Parola, fede e testimonianza, Ed. Grappa, Genova 2000, pp. 25-40.
  • Sogno un imprenditore cristiano, Genova 2004 Ed. Marietti 1820
  • Il fatto previo. Scritti (inediti) di Pompeo Piva, in Quaderni di Studi Ecumenici n. 19(2009), ed. I.S.E. VE.
Articoli:
  • La domanda etica e le diverse risposte storiche. Appunti per una riflessione ecumenica, in Studi Ecumenici 3 (1985) 229-261; 4 (1985) 441-460.
  • I criteri di fedeltà all’evento Cristo nella vita pratica del cristiano. Interpretazione cattolica, in Studi Ecumenici 4 (1989) 369-381.
  • Criteri per una fondazione della norma morale, in Studi Ecumenici 8 (1990) 377-388.
  • La risposta del credente alla fedeltà di Dio, in Studi Ecumenici 8 (1990) 75-78.
  • Riflessioni per un’ermeneutica ecumenica dell’evento etico, in Studi Ecumenici 9 (1991) 9-20.
  • Creazione e matrimonio, in Studi Ecumenici 3 (1993) 255-275.
  • L’ecclesialità delle altre chiese secondo l’ecclesiologia cattolica. Osservazioni meto-dologiche, in Studi Ecumenici 2 (1993) 137-145.
  • Osservazioni sul documento CEC: la vita in obbedienza per tutti. La fede cristiana e l’economia mondiale al giorno d’oggi, in Studi Ecumenici 4 (1993) 381-396.
  • In menoria di un amico e maestro Tullo Goffi, in Studi Ecumenici 14 (1996) 477-479.
  • La condizione di peccato e gli atteggiamenti del peccatore, in Credereoggi 16 (1996) 25-38.
  • Linee teologiche per un progetto Etico ecumenico, in Studi Ecumenici 14 (1996) 513-525.
  • Penitenza e unità. Il ministero della riconciliazione, in Studi Ecumenici 14 (1996) 330-341.
  • Per un progetto etico ecumenico, in Studi Ecumenici 14 (1996) 513-526.
  • Una lettura dei testi sul sacramenti della penitenza del concilio di Trento. Implicanze ecumeniche, in Studi Ecumenici 14 (1996) 1-28.
  • La libertà del cristiano, in Studi Ecumenici 15 (1997) 301-311.
  • Vita spirituale e vita morale, in Studi Ecumenici 15 (1997) 63-74.
  • La dimora di Dio con gli uomini: radice di esigenze etiche, in Studi Ecumenici 16(1997) 355-367.
  • La libertà del cristiano, in Studi Ecumenici 15 (1997) 301-313.
  • Vita spirituale e vita morale, in Studi Ecumenici 15 (1997) 63-77.
  • L’etica teologica nei Documenti del dialogo ecumenico, in Studi ecumenici 18 (2000) 179-211.
  • “Io sono la verità e la vita” (Gv 14,6). Verità ed interpretazione, in Studi ecumenici 18 (2000) 339-350.
  • Il dialogo nella società pluralista, in Studi Ecumenici 20 (2002) 37-43.
  • Carità e Giustizia nel dialogo ecumenico, in Studi Ecumenici 20 (2002) 441-452.
In questa bibliografia mancano numerosi articoli pubblicati su riviste specialistiche e molti altri interventi di diverso genere e contenuto usciti su vari quotidiani e settimanali.
Lasciamo ai posteri il compito di stilare il catalogo completo.
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La continuità del suo pensiero: scritti inediti.

Pompeo Piva
L'AMORE DI DIO E L'AMORE DEL PROSSIMO
1. L’eletto di Dio: Israele
Lungo tutto l'Antico Testamento, Yahvé si rivela come Colui che ha "eletto" Israele, per fare di lui il suo popolo: un’elezione che proviene unicamente dall'amore assolutamente gratuito[1]. Già in Es 20,6 ma soprattutto in numerosi passi del Deuteronomio, la risposta d'Israele a questa predilezione divina è designata con il termine "amare Yahvé"[2]. La ricerca più recente sembra però mostrare che queste formule dell'amore d'Israele verso Yahvé esprimono unicamente l'atteggiamento di fedeltà e sottomissione verso il Dio dell'alleanza, com­piuto nel culto esclusivo a Lui e nell'osservanza dei suoi comandamenti[3]. Quindi l'esigenza perentoria di Yahvé, formulata in Dt 6,5: "Ascolta, Israele (...). Ama il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze", significa l'importanza del rapporto con Dio nella vita d'Israele, ma non si riferisce all'amore propriamente detto.

Tuttavia, sono presenti nell'Antico Testamento indizi, per nulla trascurabili, in cui appare che l'esperienza religiosa d'Israele implica nel vissuto l'amore verso Yahvé.
a)              La formula della fede israelitica, credere a Dio, ha messo in rilievo l’aspetto di donazione fiduciale e di abbandono incondizionato alla grazia che nella sua radicalità è veramente amore.         
b)              Il dono del cuore nuovo, di cui parlano soprattutto i pro­feti Geremia ed Ezechiele si riferisce alla trasformazione dell'uomo nel nucleo più profondo della persona e della libertà, cioè in quella interiorità decisiva che chia­miamo amore.
c)               Alcuni Sal­mi esprimono la loro esperienza dell'inti­mità con Dio[4].
d)              La legge dell'alleanza di Yahvé con Israele presenta unite le due esigenze fondamentali: la fedeltà a Yahvé, l'unico Dio da adorare e invocare, e i doveri di giustizia e amore verso il prossimo, riassunti nella formula "Ama il tuo prossimo come te stesso"[5]. Ambedue le esigenze hanno uno stesso fondamento: l'amore di Yahvé, che per pura grazia ha liberato e scelto Israele.

La relazione del popolo eletto con il Dio dell'alleanza includeva la dimen­sione religiosa e quella etica[6]. La promessa salvifica di Yahvé conferiva al popolo e ai suoi capi la missione di agire con giustizia e amo­re verso i poveri e oppressi: Yahvé stesso si costituiva loro difensore. É giusto solo l'uomo che vive in conformità a tutte le esigenze dell'alleanza, cioè colui che crede in Yahvéh, osserva la giustizia e l'amore verso il prossimo.

La formula conoscere Yahvé, usata dai profeti, completa l’atteggiamento dell'uomo verso il prossimo. Si tratta di una "conoscenza", che implica confessare Yahvé e rendergli culto come all'unico Dio; riconoscere realmente la sua sovranità mediante l'osservanza del suo precetto dell'amore e della giustizia verso gli uomini. Il Dio dell'alleanza respinge il culto senza la giustizia. Non "conosce" Yahvé colui che da un lato partecipa al culto rituale e dall'altro priva il prossimo dei suoi diritti[7].

2. Abbà - Padre
Si deve accettare, come risultato certo dell’esegesi moderna, che Gesù ha espresso il suo rapporto con Dio con il termine "abbà", in cui si rispecchia la sua intimità filiale con suo Padre. É un fatto senza precedenti nella religiosità vetero-testamentaria: in lei si rivela la coscienza che Gesù ha avuto della sua unione, nuova e unica, con Dio. L’invocazione e la proclamazione di Dio come "Padre mio" costituisce la base permanente della sua preghiera e del suo messaggio; la sua esistenza è stata dominata da questo rapporto filiale e immediato con Dio. L’atteggiamento di Gesù include il compimento della missione ricevuta dal Padre. La pa­rola “abbà” appare nella preghiera di Gesù, quando nella sua ultima notte si è offerto per la salvezza degli uomini[8]. Luca la pone sulle labbra di Gesù nel momento della sua morte[9]. La missione di Gesù era quella di "dare la sua vita come redenzione per molti", cioè per tutti gli uomini[10]. Gesù ha vissuto il suo rapporto filiale con Dio come la dimensione primaria della sua esistenza; ma nel suo atteggiamento verso Dio era incluso l'amore verso gli uomini.

Il IV Vangelo approfondisce il suo rapporto personale-filiale, mettendo però in rilievo che l'obla­zione di Gesù per gli uomini ha la radice nel suo amore al Padre[11]. I Sinottici riferiscono, con leggere varianti, la risposta di Gesù alla domanda dello scriba sul primo fra tutti i comandamenti. Gesù proclama il primato dell'amore verso Dio, ma aggiunge che il comandamento dell'amore del prossimo è simile al primo: "Non vi è altro comandamento maggiore di questi"; "A questi due comandamenti si riconduce tutta la legge e i profeti". I due comandamenti appaiono a tal punto compenetrati, che in realtà costituiscono un solo precetto. Nella parabola del samaritano, Luca spiega che cosa significhi amare il prossimo: aiutare con le opere tutti gli uomini disagiati, Sono così riuniti in un solo comandamento (ma non identificati) l'amore di Dio e l'amore del prossimo. La paternità universale e la bontà disinteressata di Dio sono il motivo e il modello dell'amore del prossimo[12]. La motivazione cristiana appare nel discorso sul giudizio finale secondo Mt. 25, 31-46: un misterioso vincolo di solida­rietà fa di ogni uomo un fratello di Cristo. L’esigenza di Gesù, che chiede l'adesione alla sua persona come requisito indispensabile per la salvezza[13], comprende l'esigenza di vedere in ogni uomo la persona stessa di Gesù.

3.                 L’amore fondamento dell’atto salvifico
Paolo vede nell'amore di Dio verso l'umanità peccatrice la ragione ultima dell'atto salvifico compiuto nella morte e risurrezione di Cristo[14]. La risposta totale dell'uomo all’atto di Dio è designata normalmente negli scritti di Paolo con il termine fede; soltanto raramente menziona espressamente l'amore verso Iddio[15]. Ma non si può dubitare che nel pensiero di Paolo la risposta del credente all'amore di Dio comprenda la dimensione dell'amore. I testi di Rm. 5,5; 8,14‑16 e Gal. 4,6 sono decisivi a questo riguardo: mediante il dono dello Spirito, Dio interiorizza il suo amore nel "cuore del credente" e suscita in lui l'atteggiamento filiale della fiducia e dell'amore.

Paolo è più esplicito, quando parla dell'amore verso Cristo. Alla fine della 1 Cor 16, 22 scrive di propria mano: "Se alcuno non ama il Signore (Cristo), sia anatema"[16]. É una risposta di amore all'amore di Cristo nel dare la sua vita per noi: il cristiano vive di Cristo e per Cristo, in comunione di vita con lui . L'amore cristiano del prossimo ha il suo fondamen­to nell'amore con cui Cristo ha dato la sua vita per gli uomini: ogni uomo è un "fratello per il quale Cristo è morto"[17]. La cro­ce di Cristo ha creato la fratellanza universale, abbattendo tutte le barriere che dividono gli uomini. All'interno di questa visione, non può sorprendere che Paolo consideri l'amore del prossimo come la ricapi­tolazione e la pienezza della legge cristiana: l'amore e il servizio di Cristo si concretano bell’amore e nel servizio degli uomini, per la salvezza dei quali Cristo è morto[18].

Ma Paolo ha detto qualcosa di più decisivo sull'importanza dell'amore del prossimo nell'esistenza cristiana: per Cristo Gesù conta soltanto la fede operante nell'amore del prossimo. Si tratta della fede giustificante, cioè della risposta dell'uomo a Dio in cui si realizza la gra­zia della giustificazione, la "nuova creazione". La fede è giustificante, in quanto compiuta nell'amore del prossimo L'im­portanza primordiale che Paolo attribuisce all'amore del prossimo nell’esistenza cristiana è in proporzione alla serietà delle esigenze pratiche che impone la sincera carità cristiana: la rinuncia radicale a ogni forma di egoismo fino al generoso distacco dai propri beni nell'aiuto dei bisognosi e al dono di se stesso agli altri[19].

4.  Il  Vangelo di Giovanni
L'a­more del Padre si manifesta come la ragione ultima dell’atto salvifico compiuto in Cristo: Iddio ama Cristo, suo Figlio unigenito e in Cristo ama gli uomini[20]. Cristo corrisponde all'amore del Padre con la donazione della sua vita per la salvez­za dell'umanità[21]. Il cristiano ama Cristo come risposta al suo amore[22]. In tal modo sorge l'amore mutuo e la comunione di vita tra Cristo e il cristiano, come partecipazione all'amore e alla comunione di vita tra il Padre e Cristo. Dunque, il Padre è la sorgente dell'amore che si concreta in Cristo, nella sua donazione totale al Padre per gli uomini Per questo l'amore del cristiano a Dio assume la forma dell'amore di Cristo[23].

Il tema del IV Vangelo sul rapporto tra l'amore a Dio e l'amore del prossimo è consegnato nella prima lettera di Giovanni ad un livello più profondo di rifles­sione teologica. Al vertice appare la formula "Dio è amore"[24], che esprime l'atteggiamento di Dio nel consegnarci il suo Unigenito, fatto uomo e morto per la nostra salvezza. É Dio, il Padre, che ha preso l'iniziativa assolutamente gratuita dell’amore supremo nel dono del suo Figlio[25]. Accanto a questa formula se ne trova un'altra, non meno importante: "L’amore di Dio"[26]. L'esegesi moderna interpreta il genitivo "di Dio" come un genitivo comprensivo, che implica l'amore di Dio verso gli uomini, e l'amore dell'uomo verso Dio e verso il prossimo[27].

5.        La carità è amore       
È amore in senso proprio, cioè un dono del cuore, come si legge in 1 Pt 1,22 e 1 Tm 1,5. Se i mariti devono amare le mogli come se stessi e come Cristo ha amato la sua chiesa, come si legge in Ef 5,25.28.33, 2 Cor 11,11 e Col 4,14, questo significa che l’amore cristiano assume tutte le caratteristiche dell’amore umano tenero e spontaneo, coinvolgente. Si tratta di un’adesione di tutto l’essere, come suggerisce il verbo kÒllastai[28]. Amare significa volere il bene dell’amato/a come si dice in Rm 14,15 e Lc 6,31, in cui è esposta la regola d’oro. Lc 10,33-37 narra la vicenda del samaritano. Ma quando è autentica la carità/amore?

5.1. L’amore è gratitudine e disinteresse
Colma di delicatezza, la carità sarà sempre riconoscente per il bene ricevuto e quindi sarà colma di gratitudine, come si afferma in Gv 4,19. Ma il Nuovo Testamento insiste soprattutto sul disinteresse, come appare in Lc 6,32-34[29]. Ne segue che occorre perdersi per venire incontro alla mentalità, alla psicologia del fratello e della sorella[30]. Non può esistere un’unione profonda tra le persone senza una certa armonia di pensiero, di sentimenti, di modi di vivere e di sentire. Se la carità è un amore vero, sarà anche potenza di assimilazione e di imitazione e dovrà tendere alla concordia[31].

5.2.        Il dinamismo della carità
Ogni realizzazione dei singoli momenti della salvezza è spiegamento della carità divina[32]. La carità è una continua epifania dell’amore divino[33]. La carità per questo non è statica, ma agisce, si mette alla prova; non può restare nascosta nel segreto del cuore. Deve rivelarsi, come affermano Gv 14,21-31 e Rm 5,8. Tutta la salvezza del mondo è dispiegamento della carità divina: Ef 2,4-5. La stessa morte e la risurrezione di Cristo sono epifanie della carità di Dio verso l’umanità, come leggiamo in Gv 14,21. Per conseguenza, i cristiani sono invitati a fare esperienza profonda dell’autenticità dell’amore che essi hanno in cuore, come dono ricevuto gratuitamente[34] e dimostrarla alle chiese[35]. I testi sacri indicano che si tratta di azioni di carità e non di semplici parole di carità.

Tutte le volte che il Nuovo Testamento usa il termine ag£ph occorre tradurre in italiano: manifestazione di amore nella maniera più efficace. Amare i nemici non significa sentire una particolare attrazione sensibile, ma rendere loro dei servizi buoni[36]. La peccatrice anonima di Lc 7,47- 48 che ha unto i piedi di Gesù, è un esempio del servizio reso a Gesù e da rendere ai fratelli e sorelle. Quando si tratta dell’amore di Dio, la carità diventa sinonimo dell’osservanza dei comandamenti[37]. Si comprende, allora, come la carità sia la pienezza sovrabbondante[38], che vuole servire totalmente[39], che non conosce limiti, fino al dono della stessa vita personale[40]. La carità è eroica: il Sermone della Montagna di Matteo e quello della pianura di Luca lo attestano. E 1 Gv 4,10 afferma:
“In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati”.

6.        Carità e giustizia
Merita una particolare attenzione il problema del rapporto tra carità e giustizia. Nella vita del santo Medico è presente il problema

6.1.        Carità e giustizia: lo scarto tra due logiche
Sembra evidente lo scarto esistente tra la logica della carità e quella della giustizia. Pascal, in un passo dei Pensieri, sullo sfondo di un rapporto che si può indicare come spirituale-materiale, afferma:
“Tutti i corpi insieme, tutti gli spiriti insieme e tutte le loro produzioni non valgono il minimo movimento di carità. Questo appartiene ad un ordine infinitamente superiore. Di tutti i corpi insieme non si saprebbe farne un piccolo pensiero: infatti, è impossibile, perché è d’altro ordine. Da tutti i corpi e spiriti non si potrebbe trarre un movimento di carità; infatti, è impossibile, perché è di un altro ordine, sopranaturale” [41].

Il giudizio di Pascal rende più esigente la dialettica tra la carità e la giustizia. Pongo l’accento su tre caratteristiche, premesse alla presentazione dell’abbondanza propria della rivelazione.

La prima caratteristica riguarda il modo secondo cui si parla della carità. Meglio: il modo secondo cui la carità parla di se stessa. Il linguaggio della carità è soprattutto quello della lode: ciascuno di noi si rallegra alla vista dell’oggetto amato. Rallegrarsi è opera della lode. Significa che il linguaggio della carità è superiore a quello dell'etica; si pone sul piano della poesia del religioso. Ascoltiamo un passo della Prima Lettera ai Corinzi di S. Paolo e riconosciamone la poesia:
“La carità è paziente, è benigna, la carità non è invidiosa. La carità non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non sospetta il male, non gode della ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa” [42].

La carità parla anche il linguaggio dell’abbondanza, anzi della sovrabbondanza, diffondendosi in canti ed inni di benedizione. Penso ad alcuni Salmi, denominati canti di lode.
“Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; si compiace della legge del Signore (...). Sarà come un albero piantato lungo corsi d'acqua” [43].

Nel testo si riconosce lo stile letterario delle Beatitudini: “Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli”[44]. L’inno, la benedizione, i cantici sono forme di lode con la quale il linguaggio religioso pone la carità nella dimensione alta della fede. Alla poesia del religioso si oppone la prosa della giustizia, quale noi pensiamo.

La seconda caratteristica sembra indebolire la precedente. Si tratta dell'uso sconcertante della forma imperativa in espressioni, quali:
“Tu amerai il Signore tuo Dio (...); amerai il tuo prossimo come te stesso”[45]. Soprattutto: “Amate i vostri nemici” [46].

Se si assume l'imperativo come obbligante, allora si affaccia uno scandalo: com’è possibile comandare la carità! Esiste un comandamento che non è anche una legge? F. Rosenzweig, autore ebreo dell’opera Stella della Redenzione, presenta un'idea straordinaria. Prima dei comandamenti di Dio al Sinai c'è la parola che l'amato rivolge all'amata, nel registro del Cantico dei Cantici: “Tu amami!”. L’inattesa distinzione tra comandamento e legge ha senso solo se si ammette che il precetto di amare è prescritto dalla carità stessa: comandamento della carità mediante la carità. Contiene le condizioni della sua stessa obbedienza nella tenerezza dell’intimazione: tu amami. L’affermazione non si oppone alla poesia del religioso; anzi si coniuga con il linguaggio della lode e con la poesia dell'inno. Forse si può parlare di un uso poetico dell'imperativo, che meglio sarebbe espresso dalla supplica, di là d’ogni legge, sulla quale pesa l'ombra della punizione. Intravedo il legame con la logica della sovrabbondanza, propria dell'economia del dono.

La terza caratteristica attiene alla dinamica propria della carità: la sua agilità a percorrere tutti i livelli che congiungono i due estremi della scala, l'erotico da una parte e la devozione dall'altra. L'appello pressante: tu amami, che l'amante rivolge all'amata, fa dire all’Autore del Cantico dei Cantici che “la carità è forte come la morte”. Questo spiega come ogni forma di carità può servire da metafora a qualsiasi altra. Hanno sempre stupito le risonanze erotiche dei poeti mistici come Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, Teresa di Lisieux e molti altri. Niente è più contrario alla carità, alla sua potenza metaforizzante, dell'opposizione che hanno costruito alcuni teologi, al seguito di A. Nygren, tra ›roj e ¡g£ph[47]. Colloco sulla stessa spirale ascendente e discendente, œroj, fil…a, ag£ph. I tre termini si richiamano a vicenda, s’intersecano, sono parte della medesima poetica religiosa cristiana[48].

6.2. La logica del dono
È possibile ora introdursi nella comprensione del dono, opponendo la logica della sovrabbondanza a quella dell'equivalenza, propria degli scambi e delle distribuzioni giuste. Logica della sovrabbondanza significa: dare più del dovuto, di quello che è atteso, rivendicato, giustamente preteso. Dare senza esigere un ritorno. Alla disimmetria tra dare e ricevere si oppone l'equilibrio dello scambio. La logica della sovrabbondanza trova nel Nuovo Testamento una grande varietà di espressioni. Essa regge la piega stravagante di molte parabole di Gesù, denominate parabole della crescita: una semente che produce trenta, sessanta, cento per cento; un grano di senape che diventa un albero, dove gli uccelli possono nidificare. A questo riguardo si può parlare di retorica dell'eccesso, oltre che di logica della sovrabbondanza. In modo meno poetico e più dogmatico, Paolo costruisce la sua cristologia sulla logica della sovrabbondanza, che regge la storia della salvezza. Scrive, infatti:
“Se per la caduta di uno la morte ha regnato mediante quell’uno, tanto più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia, regneranno nella vita per mezzo di quell’uno che è Gesù Cristo” [49].

Quel tanto più, depositario della logica della sovrabbondanza, è ancora più chiaro nella formula breve, adottata dalla Lettera ai Romani:
“Ora la legge è intervenuta affinché la colpa abbondasse; ma dove il peccato è abbondato la grazia è sovrabbondata” [50].

Il testo esprime, meglio di qualunque altro, la logica della sovrabbon-danza. La formulazione dogmatica non deve eclissare le altre meno sistematiche. Ecco perché ho cominciato dalle parabole, dove la logica della sovrabbondanza non si discosta dalla retorica dell'eccesso, nella quale la punta poetica non è attutita. Del resto, il comandamento del Sermone del monte appartiene alla stessa famiglia della lode, della crescita stravagante, della dogmatica del tanto più.
“Voi avete udito che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché Egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Se, infatti, amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno anche i pubblicani lo stesso? Se fate accoglienza soltanto ai vostri fratelli, che fate di singolare? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti, com'è perfetto il Padre vostro celeste” [51].

La logica del comandamento non si comprende senza avvicinarla alla retorica dell'eccesso delle parabole. Si può parlare di una stravaganza teologica, che contribuisce alla poetica del comandamento e alla logica della sovrabbondanza. Nello stesso contesto di stravaganza, la carità per i nemici è opposta alla prudenza della Regola aurea:
“Non fate agli altri quel che non volete sia fatto a voi stessi”.

C'è una punta di rivolta contro la Regola aurea, che appare come invischiata nella logica dell'equivalenza.
“Se amate quelli che vi amano, quale grazia ve ne viene? Anche i peccatori amano quelli che li amano. Se fate del bene a quelli che vi fanno del bene, quale grazia ve ne viene? Anche i peccatori fanno lo stesso. Se prestate a quelli dai quali sperate ricevere, quale grazia ne avete? Anche i peccatori prestano ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperare alcun che, il vostro premio sarà grande e sarete degni dell'Altissimo; poiché egli è benigno verso gli ingrati e i malvagi” [52].

L’evangelista Luca sembra addirittura esagerare la stravaganza del comandamento, quando afferma:
“A chi ti percuote su una guancia, porgigli anche l’altra; a chi ti toglie il mantello non impedire di prenderti anche la tunica. Dà a chiunque ti chiede; a chi ti toglie il tuo, non glielo ridomandare” [53].

La Regola aurea si trova svuotata della sua saggezza ragionevole. Riaffermata prima, destabilizzata poi, è collocata al posto che è suo: la logica dell’equivalenza alla quale appartiene, come la legge del taglione. Era necessario giungere alla stravaganza teologica per accorgersi delle implicazioni di questa sconcertante logica, che ci riconduce al punto di partenza: “Tu amami”, primo comandamento assurdo. Era prima della legge. È dopo la legge. É sopra la legge, quando riveste la forma dell'impossibile comandamento:
“Ma a voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi perseguitano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano”[54].

6.3.        La regola della giustizia
La giustizia, con la sua logica d’equivalenza, è la più alta conquista della morale umana. L’affermazione è largamente condivisa. La domanda è la seguente: cosa accade, quando si confrontano le logiche della giustizia e quella della carità? Prima di avanzare una risposta, occorre cogliere alcune caratteristiche del sistema giustizia.

Chi o che cosa ci guida nell'uso dei termini giusto e ingiusto? Abbiamo un buon referente nell'identificazione quasi completa tra l'idea generale di giustizia e quella di distributiva. Nell’identificazione si ritrova la logica dell'equivalenza. L'idea di giustizia distributiva poggia sulla concezione della società come ripartizione di ruoli e compiti, diritti e doveri, vantaggi e svantaggi, benefici e costi. Il concetto di ripartizione è interessante nei suoi due significati: da un lato, la società è l'insieme degli individui; dall'altro, gli stessi individui sono parti dell'insieme. Interviene la giustizia come forza delle istituzioni che presiedono alle operazioni di ripartizione. Rendere a ciascuno il suo, è la formula della giustizia delle nostre società.

In che senso si tratta di una virtù? È davvero una virtù? Fin dall'antichità, i moralisti hanno cercato la risposta nel legame che unisce il giusto all'eguale. L'equazione funziona finché si tratta di giustizia formale, quella che s’incontra sul piano giudiziario sotto forma di eguaglianza di tutti davanti alla legge o di obbligo per i giudici di trattare i casi simili in modo uguale. L'equazione tra il giusto e l'eguale è più difficile da mantenere nei casi di distribuzioni notoriamente ineguali, come in materia di redditi, di patrimoni e di servizi, vale a dire di beni di mercato. La questione della giustizia diventa una specie di rompicapo cinese, quando si tratta di privilegiare spartizioni ineguali; insomma, di giustificare delle ineguaglianze e quindi di accettare l'idea mostruosa di ineguaglianze giuste. Nessuna società ha potuto evitare questo dilemma. Una società perfettamente egualitaria è impossibile. Da qui lo sforzo di moralisti, politologi, economisti, per distinguere tra eguaglianza proporzionale e uguaglianza aritmetica. Una ripartizione è giusta, quando le parti sono proporzionali all'apporto sociale. Questo rompicapo su divisioni ineguali ha condotto alla definizione di giustizia, proposta da J. Rawls: è giusta la società che, benché ineguale, è in grado di equilibrare l'aumento del vantaggio dei più favoriti con la diminuzione dello svantaggio dei meno favoriti. Massimizzare la parte minimale, questa è la versione moderna del concetto di giustizia proporzionale[55]. Mi fermo a questa formula come la più soddisfacente, oggi, per il senso morale comune. Vi si ritrova la logica dell’equivalenza. Il credente è soddisfatto di questa definizione?

6.4.        A quali condizioni la carità serve la giustizia?           
È pensabile una collaborazione-integrazione tra la carità e la giustizia? L’amore cristiano, non può sostituirsi alla giustizia. Questo è un principio fermo. Allora la domanda: a quali condizioni la carità può servire la giustizia? È il problema della economia del dono. Due vie si aprono.

La prima, consiste nel fare della carità il motivo profondo della giustizia, e di questa il braccio efficace della carità, diventando così la sua immagine quotidiana, la versione prosaica. È la via aperta dai profeti d'Israele, Amos e Osea in particolare. Alla critica dei sacrifici rituali, i profeti associano le loro invettive per una carità pratica, divenuta indivisibile dalla giustizia. Il sacrificio che Yahvé gradisce è la compassione, il servizio per la vedova, per l'orfano, per il povero, per lo straniero, protetto dalla regola dell'ospitalità. Gesù stesso afferma:
“Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, allora siederà sul trono della sua gloria. Tutte le genti saranno radunate dinanzi a lui ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e metterà le pecore alla sua destra e i capri alla sua sinistra. Il Re dirà a quelli che stanno alla sua destra: venite, benedetti del Padre mio; ereditate il regno che vi è stato preparato sin dalla fondazione del mondo. Perché avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, infermo e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti risponderanno: Signore, quando t'abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare? Assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo veduto forestiero e t'abbiamo accolto? Oppure ignudo e ti abbiamo rivestito? Quando t'abbiamo veduto infermo o in prigione e siamo venuti a trovarti? Il Re rispondendo, dirà loro: In verità vi dico, ogni volta che avete fatto ad uno di questi miei minimi fratelli, l'avete fatto a me”. Dirà alla sua sinistra: Via, lontani da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere”[56].

La seconda via, probabilmente più avventurosa, non nega la formula che ho appena proposto e che tende a far convergere carità e giustizia, ma mantiene la sproporzione tra i due ordini, che Pascal chiama ordine degli spiriti e ordine dei corpi. Il problema è il seguente: come rendere feconda la sproporzione, espressa prima sul piano del linguaggio, tra la poesia del religioso e la prosa della morale, e poi sul piano della logica tra la sovrabbondanza e l'equivalenza? Si dovrebbe, per salvare la stravaganza delle parabole, della retorica dell'eccesso del Sermone del Monte e della logica di Paolo nella Lettera ai Romani, mettere l'accento sul carattere sovversivo della carità in rapporto alla giustizia, e cercare d'imprimere nella nostra prassi il marchio di questo carattere. Nel Sermone del Monte esiste un'indicazione in questo senso. Il comandamento di amare i nemici, accompagnato dai suoi corollari stravaganti: porgi l'altra guancia, presta senza ritorno, offri il mantello, dona anche la tunica, è contrapposto alla Regola aurea, modello d’equivalenza.

Non si può giustificare la contrapposizione senza capire che il comandamento di amare non abolisce la Regola aurea, ma la riconduce verso il suo vero significato, liberandola da una lettura utilitaristica e orientandola verso un’interpretazione disinteressata. La carità deve de-stabilizzare, di-sorientare la concezione puramente utilitaristica della giustizia. La carità tocca il cuore stesso della giustizia di-sorientandola per poi ri-orientarla verso la generosità, perché il più sfavorito è in ultima analisi la persona singola, insostituibile, non intercambiabile: immagine di Dio, creatura assoluta, gratuitamente amata da Dio. La rettifica interna al nostro senso della giustizia, liberata dal suo carattere interessato, è ciò che le permette, se non di raggiungere il proprio fine in pienezza, almeno di prospettarlo correttamente. In una concezione teologicamente corretta, si può affermare che la carità eleva la giustizia di là della semplice delimitazione del mio e del tuo e orienta verso un'idea di cooperazione, oso dire verso un sentimento di mutuo indebitamento. Ognuno di noi è debitore insolvibile verso ciascuno e nei confronti di tutti. Tale potrebbe essere la formula della giustizia, convertita dalla carità. Convertita a che cosa? Al suo voto più segreto, che è la riconciliazione o il compromesso nei conflitti inevitabili delle nostre società complesse. L’affermazione è sconcertante anche per un credente. Se occorre oltrepassare la logica del mio e del tuo per sfociare nel nostro, per capire e vivere il mutuo indebitamento, cambia la vita, perché gli sforzi di tutti sono orientati verso il per voi. Il tema del rapporto tra equivalenza e sovrabbondanza nella formazione dei criteri, spinge il cristiano a far pendere la bilancia verso il criterio della sovrabbondanza evangelica.

Facendo un altro passo nella stessa direzione, rilevo il potere di sovversione operato dalla carità nel cuore della giustizia. La carità rompe le frontiere, i limiti culturali inevitabili, le figure storiche necessariamente limitate. Il caso dell’amore verso i nemici è esemplare. Il comandamento è sovversivo nella misura in cui mette in questione la distinzione tra amico e nemico. Israele, come i suoi vicini e non meno di loro, rispettava questa frontiera: Moab, Edom, Filistei, Cananei erano certo dei nemici da odiare. Ricordiamo il gesto provocatorio di Gesù, che chiede da bere alla Samaritana [57]. Tocchiamo con mano come il nostro ideale di giustizia, che pretende di valere per tutti gli uomini in ogni tempo e luogo, sia esercitato solo in cerchie limitate. La realizzazione della giustizia nella storia non è mai secondo l'ideale, proclamato in sede teoretica.

Si è sempre saputo che le persone non sono delle cose, delle mercanzie che si possono comprare o vendere. Semplicemente non si sono messi gli schiavi e altri esseri umani sfruttati nella categoria delle persone. Ami tutti gli uomini, ma alcuni non lo sono! È qui che la carità concreta rovescia il muro della separazione. In Cristo, dice Paolo, non c'è più né ebrei né greci né uomini liberi né schiavi né uomini né donne[58]. In Cristo; ma nella realtà, non ancora! Quanti secoli ci sono voluti per cominciare soltanto ad applicare questa formula di radicale uguaglianza tra le culture, tra le condizioni sociali, tra i ruoli sessuali, tra le chiese. Per spostare di poco la barriera, sono stati necessari atti intempestivi, spesso illegali nei riguardi delle legislazioni vigenti. Grazie alla rottura che le azioni sovversive operano nell'ordine, o meglio nel disordine stabilito, la carità del nemico viene in soccorso alla giustizia, aiutandola a compiere il suo programma. La carità sovverte i miti storici, le restrizioni etniche, i pregiudizi di classe, l'ordine stesso civile e delle chiese. Tutto ciò allontana il senso della giustizia dal suo ideale proclamato. Questa mi sembra l’economia del dono cristiano, che va ben oltre la giustizia. All’interno di questo discorso si colloca il problema del passaggio cristiano dal perdono al ringraziamento. Il discorso continua.

        Mantova, 1 aprile 2006                                      Piva Mons. Pompeo



[1]    Cf Es. 4, 22; 6, 5‑8; Dt. 4, 37; 7, 6‑9; 10,15‑11, 1; 30, 10. 16; Os. 4, 12; 9, 15; Ger. 2, 2; 11, 15; 31, 3; Is. 49, 15‑16; 54, 6; 62, 4; ecc.
[2]    Cf Es. 4, 22; 6, 5‑8; Dt 4, 37; 7, 6‑9; 10,15‑11, 1; 30, 10. 16; Os. 4, 12; 9, 15; Ger. 2, 2; 11, 15; 31, 3; Is. 49, 15‑16; 54, 6; 62, 4.
[3]    Cf J, Coppens, La doctrine biblique sur l'amour de Dieu et du prochain, in ETL, 1964, 252­-282.
[4]    Cf Sal. 72, 23‑28; 115, 1‑9; 144, 18‑20; 15, 1‑ 11; 2 1, 2‑ 12; 50.
[5]    Es. 20, 1‑17; Dt 10, 19; 5, 6‑21; Lev. 19, 18. 32.
[6]    Cf Es. 22, 20‑26; Lev. 19, 1‑ 18 33‑35: Dt. 10. 12‑19; 24.10‑22.
[7]    Cf Os. 4, 1‑2; 10, 12; 12, 7; Is. 11, 1‑5; 58, 2‑10; Ger. 22, 16; 7, 4‑7. 23; Am. 5, 7­17. 21‑27; Ez. ¨33, 14‑19; Mic. 6, 9‑12.
[8]    Cf Mc. 14, 36;  Mt. 26, 39; Lc. 22, 42.
[9]    Cf Lc 23, 46.
[10] Mc. 10, 45; Mt. 20, 28. Cf 1Cor. 11,   23‑25;  Lc.22, 19‑20;  Mc. 14, 22‑24;  Mt. 26‑28.
[11] Cf Gv. 5,
[12] Cf Mt. 5, 38‑48; 6, 12‑15; 7, 1‑5. 12.
[13] Cf Mc. 8, 35‑38; 10, 29; Mt. 10, 31‑33.
[14] Cf Rm. 5, 8; 8, 34‑34; Ef. 1, 4‑11; 2, 4.
[15] Cf Rm. 8, 28; 1Cor. 2, 9; 8, 3; impli­citamente Gal. 4,9.
[16] Ef 6,24.
[17] Rm. 14,15; 1Cor. 8,11.
[18] Rrn 13,8‑10; Gal. 5,1. 6.13‑14. 22; 6, 2; 1Cor. 13,1‑3; Col. 3,14.
[19] Cf 1Cor. 13,1‑7; 2 Cor. 8,5‑9. 14; Rm. 12, 9‑21; Fil. 4, 15‑19; Col. 3, 12‑14; Ef. 4,32; 5,1‑2.
[20] Cf Gv. 3, 16; 5, 20; 10, 15-17. 30; 16, 27; 17, 23‑24.
[21] Cf Gv 10, 15‑18; 13, 1; 1S, 3; 17, 4; 19,30.
[22] Cf Gv. 10, 14‑15; 14, 21‑23; 15, 9. 13‑14;16, 27.
[23] Cf Gv 17,21-23.
[24] 1Gv 4,8.16.
[25] Cf 1Gv. 3, 16; 4, 4‑16.
[26] 1Gv. 4,12. 17.
[27] Cf 1Gv. 3, 1‑19.23.
[28] Cf Rm 12,9 ; 1Cor 6,17 ; Mt 19,5 ; Ef 5,31.
[29] Il principio è espresso in 1 Cor 13,5, commentato da Rm 15,1-3 e da 1 Cor 10,33.
[30] Cf Rm 12,16.
[31] Cf Rm 15,5.
[32] Ef 2,4-5.
[33]: Tit 2,11 ; 3,4.
[34] 2Cor 8,8
[35] 2Cor 8,24 e 1Gv 3,19.
[36] Cf Mt 5,43-48 .
[37] Come si afferma in Gv 14,15.21.23-24. Così affermano 1Tm 6,18 e 3Gv 11 e 2Ts 2,16.
[38] 1Ts 3,12; 2Cor 8,7; Fil 1,9; 1Ts 5,13; 1Tm 1,14; Ef 4,15-16;
[39] Gal 5,13;
[40] Gv 15,13.
[41]    B. PASCAL, Pensieri, edd. Brunschvicg, sezione 12, Paoline, Roma 1999.
[42]    1Cor 13,47.
[43]    Sal 1,13.
[44]    Mt 5,3.
[45]    Lv 19,18. Cfr Mt 19,19; 22,9; Mc 12,31; Lc 10,27; Rm 13,9; Gal 5,14; Gc 2,8.
[46]    Mt 5,44 ; vedi anche Lc 6,27.35.
[47]    A. NYGREN, Eros et Agapè,  Paris 1944, soprattutto alle pp. 223-260.
[48]    Penso che sia questo il pensiero di Benedetto XVI nella sua enciclica “ Deus caritas est”.
[49]    Rm 5, 17.
[50]    Ibid. 5,20.
[51]    Mt 5,43-48
[52]    Lc 6,32-35.
[53]    Ibid., 29-30.
[54]    Lc 6,27.
[55]    Cfr J. RAWLS, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1984.
[56]    Mt 25,4146, passim.
[57]    Cfr Gv 4,142 : il testo è di grande interesse. Merita un’attenta lettura.
[58]    Gal 3,28: “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo o donna, poiché tutti voi siete in Cristo Gesù”.
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LA PARABOLA DEL RICCO EPULONE E DEL POVERO LAZZARO
(omelia per il matrimonio di Michele Colaninno, Mantova 18/10/2007).
19C'era un uomo ricco e si vestiva di porpora e di bisso e festeggiava splendidamente ogni giorno. 20Un povero di nome Lazzaro giaceva dinanzi alla sua porta, coperto di ulcere 21ed era bramoso di sfamarsi con ciò che cadeva dalla tavola del ricco. Ma venivano anche i cani e leccavano le sue ulcere. 22E accadde che il povero morì e fu portato dagli angeli nel grembo di Abramo. E anche il ricco morì e fu sepolto. 23E nell'ade egli alzò gli occhi, mentre si trovava tra i tormenti, e da lontano vede Abramo e Lazzaro nel suo grembo. 24Ed egli gridò e disse: Padre abbi pietà di me e manda Lazzaro, affinché egli intinga nell'acqua la punta del suo dito e rinfreschi la mia lingua, poiché soffro terri-bilmente in questa arsura. 25Ed Abramo disse: Figlio, ricordati che tu hai ricevuto il tuo bene durante la tua vita, e Lazzaro similmente il male. E ora egli è consolato, tu invece soffri. 26 E in tutto questo fra voi e noi è stata posta una grande voragine, affinché quelli che da qui vogliono passare dalla vostra parte non lo possono, né dì costì possono passare da noi. 27Ed egli disse: Allora ti prego, Padre, che tu lo mandi alla casa di mio padre. 28perché ho cinque fratelli, che li ammonisca, affinché non vengano anch’essi in questo luogo di tormenti. 29E Abramo dice: Essi hanno Mosè e i profeti. Ascoltino quelli. 30Ed egli dis-se: No, padre Abramo, ma se venisse loro uno dai morti, allora si convertiranno. 31Ed egli gli disse: Se non ascol-tano Mosè e i profeti, non si lasceranno convincere nem-meno se uno risorge dai morti. Parola del Signore

Annotazioni sul testo evangelico
È necessaria una chiartificazione del testo di Luca per capire il senso della parabola e di quello che sta accaden-do qui in questo momento, la realizzazione del sacramento del matrimonio di Michele ed Anna

1)       Il testo di Luca comprende due momenti:
       19-25: destino del ricco e del povero in vita e in morte;
       27-31. rifiuto della pretesa di un segno.
2)   Gesù non prende posizione sul problema della ric-chezza e della povertà; non è il problema della parabola e quindi non costituisce il centro dell’interesse di Cri-sto; non vuole nemmeno offrire un insegnamento sulla morte e sulla natura della vita dell’al di là.
3)   Fa invece una  serie di affemazioni, che coinvolgono la vita del ricco e non la sua ricchezza. Gesù racconta la parabola per denunciare il pericolo che minaccia conti-nuamente ogni uomo, anche di fede, di vivere per se stesso, senza Dio: Tamquam Deus non esset. Il salmo recita; Lo stolto dice  Dio non esiste. Mentre Cristo, nella ultima cena con in suoi Discepoli, dichiara: Queso è il mio corpo dato per voi; questo è il mio sangue versato per voi. Dobbiamo essere onesti davanti a Dio: la ricchezza può innescare un senso di autosufficienza, a volte di onnipotenza, molto deleterio.
4)   La ricchezza è usata dal ricco epulone, solo per il go-dimento personale, Il cibo, le bevande, i vestiti eleganti, illustrano un modo esclusivo di intendere la vita. Manca del tutto un qualsiasi accenno agli altri: il per voi dell’ultima cena di Gesù, Da questo atteggiamento siamo messi  in guardia tutti quanti.
5)   Lazzaro, che significa Dio lo aiuta, è il povero, Il titolo non si collega alla mancanza di beni materiali e nem-meno all’insulto da parte del ricco con il suo atteggia-mento, ma chiama in causa una dimensione del tutto religiosa, il povero è colui che accetta la sicurezza nella vita  unicamente da Dio. Non tende la mano a nessuno. E voi siete, Michele ed Anna, qui per tendere insieme la mano a Dio. In questo tendere a similitudine di Lazzaro si costruisce il sacramento del matrimonio.
6)   La presentazione della situazione ricco-povero capovolge completamente lo schema ebraico,
- ricco=benedetto da Dio, perché è giusto,
- povero=maledetto da Dio, perché peccatore. Capovolgimento che            diventa chiaro nella simbolica dell’al di là:          - il ricco è all’inferno,
               - Lazzaro è nel grembo di Abramo, cioè in Dio.
7.    Scatta il dialogo tra il ricco e il Padre Abramo.
-  Abbi pietà di me e manda Lazzaro ad intingere un dito      nell’acqua e rinfreshi l’arsura insopportabile.
-  La rispota di Abramo è lapidaria: figlio tu hai avuto in vita i tuoi beni, ora Lazzaro ha i suoi,
- Il ricco sussume: Allora ti prego, o Padre, di mandarlo alla casa di mio padre perché ho cinque fratelli e non voglio che finiscano           in        questo luogo.
- E Abramo: Hanno Mosè e i Profeti. Ascoltino quelli.
- Di nuovo il ricco replica: Ma se vedranno un morto             si  convertiranno.
- Abramo risponde: Se non ascoltano Mosè e i Profeti non si convertiranno nemmeno se un morto risorgesse.
8)   Il dialogo è pieno di tensione: denuncia profonda diver-sità delle due situazioni, sempre ricorrenti nella storia degli uomini e delle donne.
      
Il matrimonio che insieme  a Michele ed Anna celebriamo, impone uno stile di vita, una gerarchia di valori. Non c’è spazio per il disprezzo di ciò che la vita offre. La comunità cristiana, nel corso dei secoli, raramente ha assunto un atteggiamento simile. Occorre, piuttosto, stabilire una sorta di gerarchia delle verità. Le verità non sono tutte uguali; agli occhi di Dio hanno un valore diverso e subordinato. Voi vi sposate oggi. Ma avete riflettuto su questa verità: nella vita non tutto è ugualmente valido, e ciò che lo è merita una valutazione diversificata? Sposarsi significa che voi due, Michele e Anna, insieme allungate le mani a Dio  come il povero Lazzaro e chiedete la fede, la speranza, e prima fra tutte, come afferma  Paolo, la carità. Avrete dei figli ed allora diventerete padre e madre: di nuovo occor-rerà che tendiate le mani a Dio perché vi soccorra ancora con la fede, la speranza e la carità. Non scommettete sul successo. Non cercate sempre il di più. Sento salire una obiezione: ma cosa è il di più e quando si realizza? A que-sta domanda io non so e non voglio  rispondere, perché essa costituisce un problema della vostra coscienza cristiana, Michele e Anna, farete ciò che lo Spirito Santo vi suggerirà.

“Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà  tutto ciò che io vi detto,” (Gv 14, 26-27).
“Rivestitevi come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misercordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza, soportandovi  a vicenda e perdonandovi scam-bievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3,12-13).
Vi lascio la pace Cristo, Lo Spirito Santo vi assista e vi protegga per tutti i vostri giorni. Amen.
                                                  Pompeo Piva.
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Il corpo umano dolorante

 tra trascendenza ed immanenza

   Accogliere le riflessioni sul tema corpo e trascendenza significa prendere sul serio la sofferenza, il dolore. A prima vista, l’affermazione sembra banale. Tutti noi prendiamo sul serio il dolore, sia che si tratti del nostro dolore personale sia quando davanti a noi vi è uno che soffre, amato o no, con vincoli di parentela, amicizia, oppure no. Tuttavia, per il pensiero moderno non è facile prendere sul serio la sofferenza, lasciarla essere, sopportarla. Per il sentire comune essa si dà come negazione di bene: negatività, mancanza. In quanto tale va curata, annullata. Ma così non rimane più uno spazio possibile per avere attenzione alla sofferenza, che appare come qualcosa da eliminare, perché elemento non tollerabile, invadente, condizione di limitazione e di fastidio.

   Il modello paradigmatico di questo modo di intendere la sofferenza con il suo esempio per eccellenza, la malattia del corpo, è la ricerca medica. Per la medicina il dolore è segno di qualcosa che non va. Si cerca attraverso il sintomo la causa e si vuole eliminare insieme causa e sintomo. Ma la ricerca scientifica, grazie alla quale oggi si realizzano ricostruzioni del corpo fino a qualche anno fa impensabili, di fronte al dolore spesso si arena e confessa il suo fallimento: allunga la vita, ma non le offre sempre una qualità umana adeguata. Prendere sul serio la sofferenza esige accettare che la sofferenza esista, si imponga alla nostra attenzione a dispetto di tutto. La ricerca di attenzione per la sofferenza necessita di accettare e di subire la sua violenza. Tutto ciò appare inspiegabile ad una creatura alla quale si parli di creazione come atto di amore, quando essa è consumata dal dolore. Nondimeno l’attenzione alla sofferenza, il riconoscerne l’esistenza, permette di compatire, di comprendere il soggetto in stati quali la sofferenza, la disperazione, la morte: cioè il corpo sofferente, disperato, mortale perché senza il corpo non c’è sofferenza né disperazione né morte.

Perché accettare che la sofferenza sia? Perché vincolare il corpo alla sofferenza al punto da non poterlo più pensare senza di quest’ultima? Perché sofferenza e corpo sono collegati al punto che non sembra possibile pensare il nostro rapporto con la trascendenza se non a partire dall’esperienza di un corpo sofferente? Conquistare una risposta a questi interrogativi è stato l’assillo di S.Weil.
Nell’incipit del suo scritto L’amore di Dio e l’infelicità, S. Weil offre una sorta di fenomenologia della sofferenza. Ciò che è da Lei definito malheur, infelicità o sventura, è lo stadio estremo della sofferenza, la sua forma più radicale[1]. Il malheur colpisce particolarmente la parte interiore dell’uomo, quella cui si è soliti dare il nome di anima: modo di essere intimo, che non appare con la stessa immediatezza con cui un corpo o un viso si mostrano. Uno stato d’animo può essere nascosto, tenuto segreto, ma un volto no.

Da questo punto di vista, il malheur non diviene fenomeno come la malattia del corpo che si presenta con sintomi osservabili, senza i quali essa non può essere riconosciuta. Se la malattia fisica è per lo più visibile, il malheur rappresenta una forma di sofferenza del tutto singolare: quella estrema, proprio perché è la forma più acuta, si manifesta pervasivamente, fino a divorare il corpo stesso; essa necessita della esteriorità per essere vista ed attestata anche da altri. Il malheur non può fare a meno del swma per darsi effettivamente nell’individuo; vuole essere somatizzato per essere avvertito ed espresso fino in fondo. Non c’è sofferenza se non passa per il corpo, a prescindere se la sua causa sia oppure no materiale.
 Solo il corpo, con i suoi segni, veicola la sofferenza, rendendo concreta la sua presenza nel nostro essere[2].
               “ L’infelicità è uno sradicamento dalla vita, che è reso presente
                  nell’anima dal fatto che essa è colpita direttamente dal dolore fisico.
                  Se il dolore fisico è del tutto assente, non c’è l’infelicità per l’anima,
                  perché il pensiero si sposta verso altri oggetti. Il pensiero rifugge dalla
                  infelicità così prontamente, così irresistibilmente come un animale
                  fugge la morte. Su questa terra solo il dolore fisico è in grado di
                  incatenare il pensiero”[3].

Se il corpo è il substrato di ogni tipo si sofferenza, perché senza il corpo il dolore non è percepito, non esiste, ciò implica che il corpo è il vero responsabile del male che ci colpisce; e per suo tramite, l’uomo fa esperienza della finitezza, del limite, dell’essere solo una creatura, della sua spaccatura con Dio[4]. Al corpo va imputata la ragione della condizione in atto o in potenza di dolore; nel corpo si dà la distanza estrema fra Dio e uomo, distanza che è la totalità dello spazio e del tempo, posta fra l’umano e il divino nell’atto della creazione.
All’uomo, che vive solo un momento, non è dato di andare oltre questa totalità.
Gli è negata, prima ancora che egli ne avverta il bisogno, la possibilità stessa di “attraversare il tempo per intero, in tutta la sua lunghezza infinita”[5] per giungere nell’eternità; è prova che egli è un essere finito, vincolato allo spazio e al tempo, al male inteso, “nel senso di materia, spazio, tempo”. Spazio e tempo entrano nell’uomo attraverso l’esperienza della sofferenza, quando, consegnata al dolore fisico, “la carne viva è intaccata e divorata”[6] e l’uomo si accorge che gli è impossibile uscire dal suo essere hic et nunc costatando di dovere “accettare di essere solo una creatura e niente altro”[7]. E’ indubbio; è nel corpo che ognuno di noi fa esperienza dell’abbandono. Il corpo è alla massima distanza dalla Trascendenza; è il male che si oppone al Bene. Il corpo è la manifestazione della lontananza da Dio, sancisce l’abbandono del Creatore che consegna la creatura alla finitezza, allo spazio e al tempo[8].

“La carne è il velo che fa da schermo fra Dio e noi”[9]. Il corpo passibile di sofferenza è un’aporia, che con la sua violenza suona quasi come un’offesa per la razionalità dell’uomo. Il corpo non è ciò da cui si può prescindere, di cui si può fare epoch, che si può semplicemente mettere fra parentesi, perché farlo equivale rinunciare alla vita; ci separa dalla Trascendenza, si oppone come l’assolutamente imperfetto all’Assoluto perfetto, implica un grado di esistenza inferiore rispetto all’esistenza perfetta del Trascendente. Il corpo è non-bene[10]. Tutto questo è il risultato della creazione intesa come atto d’amore.
E’ una tesi non dimostrabile per l’astratta ragione speculativa. L’abbandono di Dio sperimentato nel corpo incide sulla carne viva e si consuma in essa. Nel corpo che soffre, Dio abbandona realmente l’uomo al dolore senza fare nulla per impedirglielo e senza soccorrerlo. E’ proprio così?
La tesi, che pensa il corpo a partire dal negativo, accentuando il legame fra corpo e male, non corrisponde al modo con cui la sensibilità odierna si rapporta al corpo. Oggi si impone come un dovere morale liberare l’uomo dall’imperfezione, garantire a ciascuno un corpo sano. Il diritto alla salute (fisica e morale) è un diritto inalienabile. Tuttavia non è neppure questa la questione. La domanda è un’altra e mette di fronte allo scenario drammatico dell’abbandono. Possiamo, infatti, facilmente ammettere la necessità del sacrificio e compatire sofferenza, corpo e uomo. Possiamo concordare, proprio per la nostra attuale sensibilità, che sia giusto e moralmente doveroso accogliere lo sventurato con il suo corpo e garantirgli tutti i beni terreni irrinunciabili per l’esistenza. Possiamo mostrare attenzione per chi soffre, convinti che “gli sventurati non hanno bisogno d’altro, a questo mondo, che di uomini capaci di prestare la loro attenzione”[11].  Tutto ciò, però, non risponde al perché della sofferenza, non fa comprendere perché la creazione debba darsi sotto il segno della negatività; non mette in contatto con la Trascendenza, semmai ne fa avvertire ancora di più la distanza giacché a prendersi cura della creatura non è Dio, ma un’altra creatura. Non c’è altra via che l’attenzione al corpo sofferente, senza pretendere che la sofferenza sparisca[12]; non c’è altra strada che la compassione non per annullare, ma per accettare l’altro così come è[13].

Bisogna fermarsi e dare ascolto al corpo sofferente per sentire cosa ha da raccontare sul senso del suo essere creato. Se non si fa questo, ogni discorso sulla creazione e su Dio rimane muto, vuoto, insignificante; peggio, diventa offensivo per chi soffre e muore. Pretendere di insistere che questo è “il migliore dei mondi possibili” di fronte ad un uomo che ha perso tutto, che soffre, significa offendere che soffre o ammettere il fallimento di Dio, in quanto “se avesse creato il migliore dei mondi possibili, ciò vorrebbe dire che egli poteva ben poco”. Prendere sul serio la sofferenza, compatire, riconoscere valore alla dimensione corporale proprio come segno del male e dell’abbandono di Dio e così accettarla, è l’unica possibilità per comprendere la relazione fra termini che si danno come assolutamente separati e contradditori: corpo e Trascendenza. Solo così si può tendere ad avere della misericordia divina una concezione che possa essere comunicata a qualsiasi essere umano. Ma ci si può consegnare alla potenza dell’amore divino che è nell’atto creativo?[14].

Per rispondere bisogna ascoltare il corpo sofferente; e, però, la risposta che esso dà implica una battuta d’arresto, più esattamente un vero e proprio passo indietro, un tornare all’origine, dove tutto cominciato nel tempo: l’atto della creazione. Solo il corpo pensato in un certo modo, creato come luogo della massima distanza da Dio, dell’abbandono, permette di pensare la Trascendenza. La risposta che il corpo dà è contraddittoria e si esprime in una formula che ricorre spesso: la creazione in quanto de-creazione; onnipotenza in quanto abdicazione e rinuncia alla potenza piena da parte di Dio. La risposta invoca un’onnipotenza che si auto-nega, si limita, rinuncia ad essere onnipotenza, che esercita la sua potenza nello scegliere di essere impotente. La risposta insiste su un singolare movimento di ri-trazione di Dio rispetto a sé. Solo meditando sulla creazione nell’ottica della de-creazione, dell’abdicazione si può sciogliere l’aporia. Ma questo suppone che sia proprio l’uomo, paradossalmente, che perdoni Dio di questa sua scelta, lo perdoni del suo “crimine contro di noi, quello di averci fatti creature finite”[15], di “farci esistere”[16]; lo perdoni ancora di avere scelto di abdicare, lo perdoni del suo silenzio, del suo abbandono, del fatto che “il grido ci lacera le viscere”, ma noi “non otteniamo altro che il silenzio”[17].

Conquistare la risposta vuol dire sciogliere la distanza fra uomo e Dio, capovolgere la relazione di separazione che esiste fra creatura e Creatore. La possibilità di pensare l’imminenza (il lato della creatura con il suo corpo) e la Trascendenza (l’alterità assoluta di Dio che non ha corpo se non nel farsi uomo del Figlio) legate e non contrapposte, perché separate dall’ordine del tempo e dalle leggi della materia in gioco con la creazione. Si può dire che dall’estraneità dell’Alterità assoluta di Dio rispetto all’uomo nella sua corporeità, si giunge prima ad un’idea di corpo come ciò che sta in mezzo, nel significato letterale del termine greco  metaxu, ciò che si frappone nel senso della barriera, dell’ostacolo; e poi all’idea di corpo come il mezzo, il tramite: metaxu in senso metaforico, l’intermediario fra sé e la Trascendenza. Infine all’idea di corpo come luogo di apertura della Trascendenza stessa, luogo privilegiato nell’Incarnazione. L’uomo non comprende subito, perché in lui sempre riecheggia, senza risposta, la domanda sul perché della sua sventura di dolore.

               “Colui che entra nell’infelicità sente che questa domanda si installa
                 in lui e non smette più di gridare: perché, perché, perché….
                 Cristo stesso l’ha posta: Padre perché mi hai abbandonato?”[18].
                “A questa domanda Dio non risponde, tace; la parola di Dio è silenzio.
                  La segreta parola d’amore di Dio, che è la vera risposta al perché, non
                  può  essere altro che il silenzio. Cristo è il silenzio di Dio”[19].
                  Fermiamoci di fronte a questo incalzante perché.
                                                                                                      PIVA POMPEO


[1] Molti sono i passi in cui S. Weil si sofferma a riflettere sul malheur che per lei, più di ogno altra forma di sofferenza, invoca   
   rispetto ed attenzione. La sofferenza, nella forma estrema di sventura, esige tanta più attenzione, quanto più è relegata ai margini.  
   La sventura è una condizione di sradicamento. E’necessario, allora, che allo sventurato sia offerta una dimora, sia dato ascolto.  
   Su questi temi ha scritto con una lucidità impressionante S. WEIL, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri  
   verso  l’essere umano, Milano1966; M.SHIBATA, del malheur come perfetta mediazione fra uomo e Dio cfr S. CARTA 
  MACALUSO,  Il Metaxy. La filosofia di Simone Weil, Roma 2003, pp. 145-157.
[2] Cfr S. WEIL, L’amore di Dio e l’infelicità, Roma 1979, pp. 161-162.
[3] Ibid.
[4] Cfr S. WEIL, Quaderni (daora in poi Qd, Adelphi), vol. III, Milano 1988, p. 196.
[5] S. WEIL, Qd, vol. IV, Milano 1993, p. 230.
[6] S. WEIL, Qd, vol. IV, p. 251.
[7] Ibid. p. 248.
[8] Cfr S. WEIL, L’amore di Dio, p. 172.
[9] S.WEIL, Qd, vol. III, p. 359.
[10] S. WEIL, Qd,. Vol. III, p. 193.
[11] S.WEIL, Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1972, p. 78.
[12] In una lettera a P.Perrin, S.WEIL esprime il dovere della compassione come amore delle sofferenze degli altri, nella misura in cui non siamo chiamati ad “alleviarle” (Ibid. p. 6). Di fronte al dolore altrui si sperimenta l’impotenza, il non potere fare niente per rendere nulla la sofferenza. Il dovere dell’uomo è allora l’amore e l’attenzione che lasciano essere lo sventurato tale e nondimeno amato nella sventura: “La pienezza dell’amore del prossimo sta nel sapere che lo Sventurato esiste, come uno fra i tanti, non come esemplare della categoria sociale ben definita degli sventurati, ma in quanto uomo, del tutto simile a noi”
        (Ibid.p.78). di fronte alla sofferenza altrui non si può rimanere spettatori impassibili, incapaci di compatire; si deve amare.  Amare è farsi carico con chi soffre del dolore non per alleggerirlo del suo peso, poiché il dolore rientra nell’ambito di quelle esperienze intimamente personali in cui nessuno può sostituirsi al soggetto che soffre o insegnargli come affrontare la sofferenza, in cui chi soffre è profondamente solo nell’apertura di uno spazio che separa l’umano e il non umano. Amore è condividere il dolore dell’altro affinché questi si senta accolto anche nel male, in quanto esiste così com’è, nella sofferenza o nell’assenza di essa. La sofferenza semplicemente esiste, è un inevitabile per la creatura; il problema non sta nel “non cercare di soffrire o di soffrire di meno, ma nel non essere alterato dalla sofferenza” (S.WEIL, L’ombra e la grazia, op. cit. p. 145). 
        Per questo per la Weil “amare e compatire sono l’accettazione della sofferenza altrui come fosse la propria e non in vista di una redenzione o purificazione, poiché esistono sofferenze che non si possono annullare, né si può allontanare chi soffre solo perché soffre. Tutto questo non va bene, è segno di un male; non è come dovrebbe”.
[13] Ibid.
[14] “Debbo tendere ad avere della misericordia divina una concezione che non si cancella, che non si muta, qualsiasi avvenimento la sorte voglia dirigere su di me, e che possa essere comunicata a qualsiasi essere umano” (Ibid. p. 207), “ Senza costituire per lui un oltraggio”. Si legga anche S.WEIL, Qd, vol. III, p. 110.
[15] S.WEIL, Qd, vol. IV, p.114.
[16] Ib., p. 348.
[17] S.WEIL, Qd, vol. III, p. 363. Questo perdono è così il momento in cui l’uomo sa che proprio “il male è l’innocenza di Dio”
       (S.WEIL, L’ombra e la grazia, op.cit. p. 197), prova dell’amore del Creatore per le creature.
[18] S.WEIL, L’amore di Dio, op. cit. p. 205.
[19] Ibid. pp. 205-206
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Pompeo Piva
GIOBBE - CRISTO
FIGURA DEL DOLORE UMANO O IMPLACABILE DOMANDA A DIO
Il contesto evangelico: luogo drammatico della vicenda finale di Gesù di Nazareth. Sullo sfondo della narrazione della vicenda di Giobbe, forse è possibile capire meglio la tragedia di Cristo.
 Dai capitoli 26-27 del Vangelo secondo Matteo:
  •  Complotto contro Gesù: 26,1-5
  • L’unzione di Betania: vv. 6-13
  • Tradimento di Giuda: vv. 14-16
  • Istituzione dell’Eucarestia: vv. 6-29
  • Predizione del rinnegamento di Pietro: vv. 30-35
  • Al Getsemani: vv. 36-46
  •  L’arresto di Gesù: vv. 47-56
  • Gesù davanti al Sinedrio: vv. 57-68
  • Rinnegamento di Pietro: vv. 69-75
  • Morte di Giuda: 27, 1-10
  • Gesù davanti a Pilato: vv. 11-26
  • La corona di spine: vv. 27-31
  • La crocifissione: vv. 32-38
  • Gesù in croce deriso: vv. 39-44
  • La morte di Gesù: vv. 45-55
   Giobbe è figura del dolore umano, della simbolica delle lacrime, come chiave e misura della Storia? Il suo lamento e il suo grido attestano semplicemente l'universalità dell'umano dolore? Chi legge Giobbe in questa prospettiva, fa emergere immediatamente la figura di Cristo dolente a causa delle colpe di tutta l’umanità.
Chiunque abbia attraversato, anche a passo veloce, il Libro di Giobbe, credo abbia visto distendersi un paesaggio ben piú articolato e complesso. Il lettore si addentra in una grande città, dove può capitare di perdersi, come viandanti sprovveduti. Una grande città o una piccola e sfuggente murena. L'immagine è offerta da San Gerolamo, consapevole delle difficoltà d'accesso, degli ostacoli, dello sviluppo contraddittorio, che il Libro di Giobbe oppone ai suoi lettori.
Dunque, chi volesse leggere questo testo biblico come un grande epos del dolore umano, chi volesse identificare nel suo grido la dolente espressione del giusto sofferente, guardando alla sua angoscia come ad un tratto universale dell'esistenza umana, si manterrebbe in una zona ancora esterna al messaggio, in uno spazio neutro, al di qua del suo nucleo problematico.
La condizione di Giobbe, come quella di Cristo, non può essere semplicemente assimilata al rumore infinito di tutte le voci dolenti. Certo è il racconto di un'ingiusta sofferenza, che non trova nessuna giustificazione agli occhi di un pio ebreo; è una pena irragionevole perché Giobbe ha la coscienza precisa di essere senza colpa alcuna nei confronti di Dio. Nessuno riesce a convincerlo del contrario, nemmeno gli amici teologi. Il dolore, la sofferenza costituiscono, senza dubbio, l'incipit. Ma lo sviluppo del racconto porta lontano. Ci con-duce attraverso giorni di pianto amaro, senza pace né tregua, di spasimo e tremore. Dal fondo tenebroso di questi giorni, Giobbe rivolge a Dio un grido di dolore che si affaccia come dura ed implacabile domanda:
             “Chiederò a Dio: Non condannarmi, 
fammi sapere che hai contro di me.
Ti sembra giusto opprimermi
 e disprezzare l’opera delle tue mani
 mentre dai luce ai disegni del malvagio?
 Hai forse occhi di carne
 e vedi come vedono gli uomini?
 I tuoi giorni sono come quelli di un mortale,
 e i tuoi anni come quelli di un uomo?
 Perché indaghi la mia colpa
 ed inquisisci il mio peccato,
 sebbene tu sappia che non sono colpevole
 e che nessuno mi strappa dalle tue mani?
 Le tue mani mi hanno formato e modellato
 tutto il mio profilo; e ora mi annienti?
 Ricorda che d’argilla mi hai fatto;
 ora mi restituisci alla polvere?”.
All'apice del dolore, all'estremo dell'abbandono, egli chiama in causa Dio. Il confronto con Dio occupa il centro della vicenda di Giobbe. Contrasto, divergenza, lotta fra l'uomo e il suo Dio, separazione e antagonismo, grida che lacerano un duro silenzio.
Vi si racconta come la parola dell'uomo si fa giudizio, come la piaga che strazia la carne diventa accusa, come il lamento prende il tono implacabile, serrato dell'istanza interrogativa. Come una sonda, il grido di Giobbe esplora, investiga il cielo e chiama in causa il suo Dio e il suo disegno. Giunta al suo apice, l'angoscia di Giobbe si traduce in una serie di angosciose domande:
“... quale sorte riserva Dio dal cielo,
quale eredità l'Onnipotente dall'alto?
Non riserva forse la disgrazia per il criminale
e la rovina per i malfattori?
Non vede dunque i miei sentieri,
non mi conta i passi?”.
Non più contenibile, rotto ogni argine, il dolore si rovescia in disputa, dà luogo al serrato confronto con Dio. Quando Giobbe prende di mira Dio, il dolore non si smorza, non si tempera, non si attenua, ma torna ad accendersi, si moltiplica, si approfondisce. Le sue potentissime grida vogliono raggiungere Dio. É Dio che Giobbe vuole stanare. Il suo silenzio lo opprime. Quel silenzio, quella impenetrabile cortina di silenzio, Giobbe intende scuotere.
“Ti chiedo aiuto, ma tu non ci fai caso;
persisto, e mi fissi contro lo sguardo.
Sei diventato mio carnefice;
mi attacchi col tuo braccio nerboruto.
Mi fai levare in alto, sospeso, e cavalcare
e mi sbatti nell'uragano.
So che mi hai votato alla morte,
dove si danno la posta tutti i viventi.
Non protende uno la mano nella disgrazia
o non grida aiuto nella sventura”.
Giobbe non grida per sé, ma grida a Dio. Non è, il suo, un semplice lamento, una supplica salmica, ma una provocatoria interrogazione rivolta a Dio. La disputa con Dio non verte sul male ingiustificato che l’uomo deve vivere, ma come poter credere e in quale Dio credere nonostante l'assurdità della vita.
Il contrasto fra Giobbe e Dio costituisce, dunque, il vero nucleo tematico del libro sacro, l'ipotetico centro che ne attrae tutto il movimento. É questo il suo strato più profondo. Abbiamo visto dissolversi la voce di Giobbe nel rumore infinito di tutte le voci dolenti, l'abbiamo perduta nelle peripezie che vanno a formare il grande epos del dolore dell'uomo, senza comunque arrivare a riconoscere la particolarità del suo timbro.
Omologata all'espressione del giusto sofferente, quella voce resta indecifrata, inintelligibile. Si confonde nell’universalità indifferenziata del dolore, si perde nella generalità delle sue manifestazioni. Una volta riconosciuto la rilevanza del motivo del contendere con Dio, si giunge al fondo del grido e del lamento di Giobbe. Egli non grida per sé, non si lamenta, né semplicemente testimonia la sofferenza ingiustamente patita. Egli grida a Dio. Resiste nel suo grido. Alza la sua voce. Non desiste. Proprio il grido è il segnale del suo cammino ai confini della fede, il suo procedere, il suo insistere sul terreno della prova. È il grido di Cristo sulla croce: “Padre perché mi hai abbandonato?”.
Giovedì Santo 2003
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IL DIALOGO NELLA SOCIETÀ PLURALISTICA
Viviamo in una società pluralistica. È una brutta espressíone, ma non ne trovo una migliore per esprimere il concetto. La constatazione è una verità tanto ovvia, che non la si afferma nemmeno piú volentieri. Tuttavia è necessario riflettere sul tema. Propongo qualche riflessione introduttiva.
Il problema del pluralismo sorge solo quando di fatto talune convinzioni particolari avanzano per principio la pretesa di una validità universale, se non vogliono contraddire la loro essenza. Un esempio: una società di entomologi o di appassionati di pesca subacquea, rappresentano una concezione particolare, ma non avanzano però la pretesa di voler attirare l'interesse di tutti. Il cristianesimo invece, nelle sue diverse forme ecclesiali, oppure altre forme ideologiche totalizzanti, sentono se stessi come dotati e investiti di una pretesa di verità e di una missione rivolte a tutti, come una concezione universale, come “Weltanschauung”, a meno che non rinneghino la loro essenza. Tali concezioni, di fatto particolari, ma universali dal punto di vista dell'idea che hanno di sé e delle pretese universali che accampano, si danno nella realtà. Sorge un problema preciso ma complesso: è possibile il dialogo? Quale ne è l'essenza e come va condotto?
Il fatto che il dialogo debba essere libero, più che spiegarlo è presupposto. Ciò significa: il dialogo deve rinunciare a priori alla forza e alla violenza nelle sue molteplici forme sociali, esplicite o anonime. Con il termine forza intendo tutto ciò che cerca di imporre a qualcuno una concezione, un atteggiamento interno o esterno, senza appellarsi all'intelligenza individuale e alla libera approvazione dell'altro; senza dargli, per principio e realmente, la possibilità interna ed anche esterna di dire di no di fronte alla concezione che si vuole trasmettergli.
Quando dico che il dialogo deve rinunciare a priori alla forza, non penso alla tesi utopistica, per cui ogni forma di forza sarebbe immorale, né mi nascondo che sorgono molti oscuri problemi che posso solo menzio-nare: il diritto a difendere, con la forza, la libertà ad avere una propria concezione di fronte ad attacchi violenti che la vuole negare; a proteggere, con la forza, le "regole del gioco democratico" e il necessario ordine pubblico di fronte a coloro che, appellandosi alla libertà della propria concezione, infrangono quest'ordine, anche se si deve ammettere che l'ordine pubblico non possiede dei confronti assolutamente fissi, perché nel suo concetto e nella sua estensione soggiace a un mutamento storico. Da ultimo, il problema della forza che inevitabilmente è già posto con ogni istituzionalizzazione necessaria e inevitabile ‑ per quanto tollerante essa sia ‑ di una certa concezione.
Il problema che stiamo considerando non è quindi la rinuncia alla forza nei rapporti fra le varie concezioni, bensì il loro dialogo. Si potrebbe pensare che non esista più alcun problema, qualora le "Weltanschauungen" rinunciassero alla forza. Infatti, posta questa rinuncia, se ogni Weltanschauung intende trasformarsi, sulla base della propria essenza da particolare in universale, non le rimane a tale scopo che un unico mezzo: la missione per mezzo della parola e del tentativo di convinzione, quindi il dialogo.
Ma le cose non sono cosi facili. Infatti, ogni discorso che cerchi di istruire e di convincere l'altro senza l'impegno della forza è già un dialogo o non è predica e propaganda? Un dialogo non è forse caratterizzato dalla rinuncia a "convertire" l'altro; rinuncia, quindi, che è in profonda antitesi con la natura della
  
Weltanschauung che pone se stessa come assoluta e universale? D'altra parte, se cosi fosse, il dialogo non si ridurrebbe ad un innocuo scambio di vedute con la rinuncia a priori a voler dire qualcosa di obbligante anche per l'altro? Il dialogo deve essere inteso in senso socratico, come uno strumento pedagogico per mezzo del quale una persona conduce l’altra alla propria posizione? Ma le vere concezioni universali vorranno sostenere un tale dialogo fra di loro? Se il dialogo è avviato con la convinzione preliminare che non ci si "accorderà", vale o la pena di avviarlo? Sarà soltanto un mezzo inadeguato per dire che, nonostante una disperata diversità di opinioni, si vuole andare d'accordo? Il dialogo acquista il suo senso e la sua importanza soltanto dall'accordo finale, almeno sperato? Ha in sé il suo senso perché possiede una speranza?
Prima di dire qualcosa su questo groviglio di oscuri interrogativi, riandiamo un po’ alla situazione odierna del dialogo fra le diverse concezioni. Si può dire, a ragione, che la situazione di un confronto dialogico fra le varie concezioni universali si dà soltanto oggi, nella nostra ora storica. Naturalmente, la missione, la predicazione, il dialogo religioso ci furono sempre, incominciando (nell'ambito del cristianesimo) dal Dialogus cum Tryphone di Giustino e l'Octavius di Minucio Felice. Tuttavia, quello passato non fu un tempo di dialogo.
Finora, infatti, si sono sempre formate entità sociali omogenee, nelle quali regnava sostanzialmente una sola concezione, la quale rimuoveva dalla pubblica società le differenze esistenti oppure le trasformava. Non esisteva, quindi, una società pluralistica. Non esisteva il dialogo tra diversi atteggiamenti dello spirito derivanti da una diversa "Weltanschauung". Oggi le cose sono cambiate. I singoli spazi, finora omogenei rispetto ad una loro "Weltanschauung", hanno perduto interamente la loro omogeneità. Ognuno è diventato vicino di ognuno.
Ciò posto, se non si vuol coltivare l'opinione assurda che l'esistenza dell'uomo possa essere regolata e salvaguardata nello stesso spazio indipendentemente dalle sue concezioni, che dunque la cultura non sia affatto d'importanza vitale per la dimensione biologica e socio‑civilizzatrice dell'esistenza umana, allora il dialogo fra le varie concezioni acquista un'importanza vitale. Infatti, data l'unità dell'esistenza spirituale‑personale e corporea‑sociale dell'uomo, nessuna concezione può rinuncia-re a obiettivarsi nell'ambiente d'esistenza spazio‑temporale e sociale, che è comune a tutti; non può ritirarsi in una "interiorità" che non interessa più alcun altro; oggi non può più nemmeno conquistare soltanto per sé lo spazio d'esistenza corporeo‑sociale. Le concezioni universali sono messe a confronto nello stesso spazio storico d'esistenza e cosi continuano a vivere.
In tale situazione il dialogo è l'unico modo per cercare di creare una qualche coesistenza. Ma è possibile un tale dialogo? Non fallisce forse a causa di un’assurdità intrinseca, che sembra annullarlo interamente? In un dialogo basato su una concezione complessiva della vita e del mondo, entrambi le parti devono compiere il tentativo di "convertire" l'altra; devono indurla ad accettare la loro concezione e non hanno tuttavia la prospettiva di riuscirvi. Il dialogo sembra farsi assurdo, per-ché privo di prospettive, nel momento stesso in cui esso si rende necessario in una società che è e rimane pluralistica. Ma un'alternativa non esiste. Infatti, anche gli atteggiamenti dello spirito e le concezioni universali di principio soggiacciono alla legge della storia; possiedono una base di partenza particolare, un vocabolario finito ed ereditato, una differenza fra ciò che propriamente intendono e ciò che è stato rea-lizzato in concreto
  
Anche una concezione universale può riconoscere questa sua storicità, l'incompiutezza della realizzazione storica del suo progetto di base, senza cessare di essere tale. Anzi, soltanto riconoscendo questa sua origine storica da un passato ben preciso e finito, e il suo orientamento verso un'auto‑realizzazione posta nel futuro e non ancora compiuta, può avanzare delle pretese di validità universale. Un appello al proprio futuro, l'accettazione del proprio carattere escatologico che in un’auto‑critica si rivolge al proprio tempo e lo sottopone al giudizio del futuro, fanno parte dell'essenza di una concezione universale.
L'universalità e l'apertura di principio verso il proprio futuro anticipato soltanto in un atteggiamento pieno di aspettativa e di speranza non si contraddicono. Dove non si dà questa apertura, avremmo una prova che la pretesa di universalità è a priori illegittima. Questo difetto farebbe di un tale "Weltanschauung" un'entità irrigidita nella mancanza di storicità, incapace di dialogare e verrebbe trascinata nel tempo soltanto come un relitto del passato. Quando invece una concezione universale si riconosce come aperta al futuro, allora è capace di dialogare: per lei un dialogo ha già un senso prima che sia portato a termine con il passaggio dalla validità di fatto particolare alla validità di fatto universale. Essa stessa, infatti, in questo dialogo senza fine ricupera le proprie possibilità; di fronte alla controparte dialogante, e in lei, può rico-noscere e perfezionare sempre più se stessa; impara soltanto cosi ciò che da sempre sa. Va presupposto, è chiaro, che essa non identifichi il suo stadio storico attuale con la sua essenza assoluta. Non deve fare questo neppure se per principio pone se stessa come verità per tutti, come universale. Inoltre non deve coltivare la convinzione che nel dialogo le si avvicini soltanto un interlocutore, che non ha fatto che negare in modo contraddittorio quello che essa stessa afferma essere la sua verità. La situazione dì netta opposizione fra si e no nei confronti di una proposizione, è una situazione che nel dialogo sì dà sempre. Dove infatti la verità o la falsità di tali proposizioni opposte, apparentemente contraddittorie (per es. Dio esiste; Dio non c'è), non possono essere semplicemente verificate con un esperimento scientifico sull'oggetto in questione. Si tratta si tratta di contenuti di pensiero che sono noti da sempre e che bisogna continuamente cercare di riscoprire.
Che cosa si intenda per libertà, persona, Dio, amore, dovere, morale, salvezza, ecc. è qualcosa che da sempre conosciamo e che, nello stesso tempo, rimane impenetrabile, qualcosa che abbiamo sempre saputo e attorno al quale abbiamo sempre posto degli interrogativi. E proprio a questa realtà sempre nota e sempre impenetrabile, alla quale sempre sì arriva, ma che mai si comprende e si afferra in maniera definitiva, che gli uomini strutturati in maniera storica, arrivano batten-do strade diverse Qui sta poi il mistero della loro ultima decisione per-sonale, che in ultima analisi si sottrae alla riflessione propria e al giu-dizio degli altri. La spiegazione, l’articola-zione concettuale, l’oggettivazione teoretica sono diverse e la loro diversità forma proprio l'oggetto del dialogo. Esso rimane significativo e necessario, perché anche la spiegazione concettualmente riflessa dell'ultima esperienza originaria del tutto può essere significativa. A questo scopo non è affatto detto che le differenze contraddittorie, espresse nelle proposizione oggettivate, nella realizzazione esistenziale dell'uomo, presentino con certezza, sempre la stessa identica contraddizione assoluta.
  
Oggi il dialogo presenta delle difficoltà infinitamente più gravi: il sapere, letterario e scientifico, è cosi differenziato e cosi vasto che il singolo, confrontato
all'insieme di questo sapere, è diventato sempre più ignorante. Nella sua coscienza individuale egli può afferrare direttamente sempre meno di questa totalità in continuo aumento; lo stesso intellettuale, il dotto, per forza di cose è sempre più uno specialista. L'odierno dialogo, quindi, non è caratterizzato solo dal fatto che gli interlocutori sono di vedute diverse, ma innanzi tutto dal fatto che nessuno più sa o può sapere ciò che sa il suo interlocutore. Questo lo rende molto più difficile. Tuttavia deve realizzassi. Non un dialogo nel quale le due controparti non prendono più sul serio la propria convinzione e cosi non possono parlare sinceramente, perché non hanno nulla da dire. Un dialogo in vera libertà, non animato soltanto da quella tolleranza e coesistenza, che vengono accettate perché manca la forza dì annientare l'avversario. Un dialogo nel quale si ha l'ardire di porre a repentaglio se stessi: una "Weltaschauung", per principio universale, deve tentare l’impresa e le è lecito farlo. Essa può avanzare una pretesa di universalità solo se si apre al tutto, se anche per questa via cerca di scoprire in sé la causa di un si più pieno.
Un cristiano deve partecipare al dialogo, consapevole del pericolo che la colpa dell'orgoglio, della presunzione, della falsa sicurezza di sé, della violenza, può pregiudicarlo, trasformandolo in una menzogna sociale. È sempre consapevole di essere peccatore e pertanto pone la propria partecipazione sotto il giudizio e la misericordia di Dio. Sa che soltanto l'amore è la suprema luce della conoscenza e che perciò anche per il dialogo deve valere quanto dice S. Paolo: "Quand'anche io parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, se non ho la carità, io sono un bronzo che suona e un cembalo che squilla" (1Cor 13,1). Nel vero dialogo si è longanimi, benigni, non sì è invidiosi, non ci si vanta, non ci si insuperbisce, non si finge, non si cerca il proprio interesse, non ci si irrita, non si tiene conto del male che si riceve, tutto si sopporta. egli sa, infatti, pur essendo convinto della propria verità, che adesso la vede ancora come in uno specchio e per enigmi.
 Piva mons. Pompeo
         Mantova, 16 luglio 2002
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QUESTIONE MORALE, CRISI DELLA POLITICA.
I COMPITI DELLA COMUNITÁ ECCLESIALE
Quando rifletto sulle questioni relative alla crisi della politica e i compiti delle comunità ecclesiali oggi, chissà perché mi vengono alla memoria i “gironi danteschi”. A costo di sembrare eccessivo nel semplificare problemi gravissimi, voglio tentare di esprimere il mio punto di vista nel modo più sintetico possibile. Dico: nel modo più sintetico possibile, perché la realtà in cui viviamo è confusamente complessa, per questo spesso incomprensibile; realtà del resto in continuo e contraddittorio movimento.
Il contesto generale si presenta come un grande campo di battaglia, in cui emergono gli interessi più contrastanti. Assistiamo ogni giorno ad un aspro dibattito tra le forze politiche, sindacali, imprenditoriali e altri attori sociali, caratterizzato da forti interessi di parte, come se l’ultima consultazione elettorale sia stata l’epilogo di una permanente e  patologica acredine di tutti contro tutti. Forse i grandi del potere delle diverse parti (quelli che veramente contano) hanno avuto l’ardire di pensare che fosse sufficiente riannodare discorsi interrotti fra le forze politiche, per “aggiustare” il risultato emerso dalle urne. L'aggiustamento dei vecchi discorsi sarebbe bastato per costruire un governo stabile e forte, usando le stesse tattiche logorate da decenni, con le stesse formule ad uso dei vecchi partiti, con l’esibizione arrogante delle medesime facce sempre più usurate. È continuato, ancora una volta, il vecchio teatrino delle comparse e delle contrattazioni tra i due schieramenti per l’occupazione dello Stato e delle sue Istituzioni.
A partire da questa elementare constatazione appare chiaro che la classe politica, che ha egemonizzato e soffocato lo Stato di diritto in questi ultimi decenni, non è più in grado di pensare alla gestione della cosa pubblica in maniera adeguata, al bene comune. Con un risultato disastroso per il Paese. Ora, con i partiti in rapida decomposizione che senso ha la strategia dell’aggiustamento? È l’ennesimo malcelato tentativo da parte dei partiti di mantenere intatto il proprio potere. Cosa insensata soltanto a pensarla. È così difficile capire che la gente si ribella a una simile prospettiva? Lo smarrimento è molto diffuso. Tutti quanti conosciamo la situazione di degrado in cui siamo piombati. Non passa giorno senza che personaggi di spicco, di diversa estrazione politica e sociale, oltrepassino i portoni dei tribunali o delle carceri. I giudici alla Di Pietro si sono moltiplicati in tutta Italia. Non è certo un mistero che sul parlamento, sul governo, su parecchi parlamentari, sull’attività economico-imprenditoriale del paese, pesa sempre di più la reazione popolare per porre fine all'immoralità di un costume generalizzato. Qualcuno dirà che i ladri ci sono sempre stati. Perché allora scandalizzarsi? È vero. Ma c'è una novità carica di pericoli: il latrocinio sistematico ha trovato forma concreta in un sistema perverso che ha messo in ginocchio le Istituzioni dello stato democratico. Insomma una specie di tacita legalizzazione. Pertanto si carica di una gravità morale enorme: porta dentro di sé una spinta eversiva. Per questo è senza dubbio più grave di qualsiasi furto perpetrato a scopo di vantaggio personale. Un ladro lo si mette in galera (quando scoperto e se accade) per il delitto compiuto: in qualche modo si assiste ad una sorta di difesa con l'emarginazione di chi turba la vita sociale. Nella politica la situazione è drammatica. Si devono denunciare i colpevoli; ma non per questo è ripristinata la legalità nel Paese. Le ferite sono profonde, a volte si ha l'impressione che siano mortali. Soltanto una forte iniziativa politica potrà farci uscire da tale marasma. Quale iniziativa? Da parte di chi? Quali sono le forze capaci di iniziare il cammino della restaurazione della legalità politica, condizione essenziale per affrontare tutti gli altri problemi del Paese? Si percepisce da più parti che la causa del nostro dissesto economico è attribuibile anche, se non del tutto, ma in certa parte sì, alla instabilità politica. L'immagine dell'Azienda Italia è danneggiata. Gli operatori economici stranieri girano al largo; non sono sicuri di essere tutelati da una politica complessiva capace di garantire i loro legittimi interessi. Ma torniamo alle domande poste.
A questo livello si svolge il movimento più complesso: si cercano le strade per uscire dalla situazione attuale. È un movimento che deve avere come soggetto attivo la gente comune. Cresce l'insofferenza per il modo di fare politica che ha condotto al disorientamento attuale, dando corpo al nuovo inganno della protesta antipartito, che rischia di trasformarsi in un rifiuto del sistema democratico. Occorre riflettere per trovare il modo di rovesciare queste tendenze perverse. Se il nuovo deve cominciare a nascere, esso non può assumere il volto dell'egoismo, del rifiuto della solidarietà, del separatismo comunque camuffato, che sta al fondo del più ottuso istinto di conservazione.
Come affrontare il discorso complessivo, sotto l'incalzare degli avvenimenti ormai a scadenza quotidiana? Io credo che non sia possibile, fin d'ora, ipotizzare tutti i passi da compiere nei diversi settori della vita pubblica, se prima non si passa attraverso la necessaria riforma del sistema elettorale. Guardando in faccia la realtà italiana, ritengo necessaria la soluzione prospettata dall'iniziativa referendaria, se si vogliono creare le condizioni democratiche di governo del Paese. Occorre costringere l'attuale Parlamento a provvedere il Paese di una legge elettorale che essenzializzi il quadro politico, definisca con sufficiente chiarezza gli schieramenti di governo e di opposizione. Percorrendo questa strada sarà possibile, forse, licenziare gran parte della classe dirigente attuale, incapace di fare gli interessi della collettività e di raggiungere una sufficiente stabilità legale entro termini temporali ragionevoli. Da qui si può partire per affrontare tutti gli altri problemi: la ripresa dello sviluppo economico, la salvaguardia dell'ambiente, la scuola, il lavoro, la sanità, il precariato la disoccupazione, la casa, la riforma sanitaria, la riforma burocratica dello Stato e delle sue strutture periferiche; e tanti altri nodi problematici.
La questione etica si pone soprattutto a questo livello. Con quale metodo? Occorre individuare le richieste che salgono dalla società, indicare i fini che si vogliono raggiungere per rispondere alle esigenze di giustizia della gente e individuare le risorse necessarie che si intendono impiegare. Il rapporto tra questi diversi fattori costituiscono l'eticità della politica, tesa al raggiungimento del bene comune. Ovunque troviamo, in forme e per cause storiche diverse, chiusure e individualismo di gruppo.  Si ha una spinta feroce a un «bene comune» che esclude «l'altro». L’annuncio cristiano dovrebbe essere ovunque presente, unito a tutti gli uomini di buona volontà: proclamazioni o appelli generici sono vani. Occorre una presenza attiva e capace di sacrifici che testimoni la passione per il con-vivere e il con-dividere.  Per il cristiano e per l'uomo di buona volontà il criterio così diffuso del do ut des (io do una cosa a te e tu dai una cosa a me) è da considerarsi quasi una bestemmia.  Il Vangelo ci insegna, ci impone di amare anche i nostri nemici, di dare senza sperare nulla in cambio, di fare del bene a chi ci perseguita. Non è questa la condizione indispensabile per parlare di bene comune?

 E la Chiesa come si colloca nel contesto di tutti questi problemi? Certamente non è stata neutrale nel passato. Credo che, a maggior ragione, non lo possa essere oggi. Ma come? Questo è il problema. Non certo secondo le modalità già esperimentate, quali il collateralismo e l'affermazione ripetuta dell'unità politica dei cattolici, che ha portato ad una conclusione ovvia per tutti. La Chiesa deve liberarsi del convincimento, ormai quasi un postulato indiscutibile, di non potere attuare tutte le sue potenzialità pastorali se non possiede un referente partitico sicuro all'interno della società civile. Una condizione prioritaria nei fatti, anche se poi è ufficialmente negata. Noi cristiani dobbiamo essere i primi ad avere il coraggio di chiamare le cose per nome. Non intendo giudicare il passato; non mi interessa più di tanto. M’importa che sia chiara la prospettiva: indietro non si torna. Libera da questo legame, la comunità cristiana deve perseguire un suo discorso politico. Su quale piano? Non esiste comunità umana senza un ordine politico. Ciò significa che l'ordine politico è un'esigenza e un dono di Dio creatore. Il cristiano non può prescindere da questa affermazione di valore. Quindi l'ordine politico è necessario per l'uomo: permette a ciascuno di scoprire l'interdipendenza che lo lega agli altri, mette in evidenza l'importanza capitale della comunicazione nel progetto politico e del dialogo per combattere la menzogna, crea un possibile consenso su valori capaci di promuovere la vita umana. Questo nucleo dottrinale va affermato con forza dalla predicazione della comunità cristiana e dalla sua testimonianza, dovunque i singoli pensano di trovare lo spazio partitico per l'attuazione concreta di queste idealità. Insomma, una passione per il con-vivere e il con-dividere. 
Mi rendo ben conto che il rischio di queste affermazioni è di sostenere una posizione da osservatore idealista e alla fine di conservazione. Ma ciò che intendo dire è che ogni ricerca di etica politica chiama in causa il dialogo con coloro che sono più direttamente alle prese con l'ambiguità dell'esercizio concreto del potere. Il primo compito profetico della comunità cristiana in ambito politico è dialogare con tutte le componenti della società civile per smascherarne ambiguità. Non solo sul piano ideologico, ma anche e soprattutto a livello dei problemi concreti degli uomini e delle donne. Soltanto su questo terreno si riesce a coniugare i principi che stanno alla base dell'impegno politico dei credenti. Su questo terreno, ogni cristiano incontra uomini e donne che coltivano le stesse aspirazioni, pur partendo da presupposti vitali diversi. Accanto all'affermazione dei propri valori, la comunità cristiana non può ignorare l'esistenza di altre comunità di diversa natura ed estrazione culturale, conviventi nella società civile, che professano altri ideali o altre modalità concrete di realizzazione degli stessi. Come non dialogare? Come non ascoltare? Perché dividersi su tutto, quando è possibile un terreno comune dove possono convivere pacificamente diverse posizioni? Insomma, la comunità cristiana deve assumere il volto autenticamente ecumenico, proprio della carità del Cristo, maturando la coscienza di non essere sola a camminare sulle strade del mondo, e pur consapevole della verità di cui è depositaria, non vivere della presunzione di ritenersi l’unica capace di elaborare tutte le soluzioni per i problemi degli uomini. Se lo pensa, e soprattutto se lo fa, pecca.
Piva mons. Pompeo
                                                    Mantova, 29 ottobre 2007.
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Convegno Mantova, 16 dicembre 2008
TESTAMENTO BIOLOGICO: PROBLEMA TEOLOGICO- ETICO.
Piva Pompeo (Istituto Ecumenico “S. Bernardino”-Venezia)
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 Sommario
1.    Un’idea che non si può cancellare ma non si sa come pensarla.
2.   Una legge naturale non naturalistica
3.   La tentazione della biolatria.
4.   La questione etica.
5.    Il concetto di persona.
6.   Il volere libero.
  
Premessa.
L’espressione testamento biologico non è priva di ambiguità. Il termine testamento evoca una serie di problemi difficili e diversi tra loro. Elenco alcune delle questioni maggiormente discusse, oggi; questioni che si trasformano in altrettante domande.
1)     Alcuni si domandano: se un soggetto può disporre per il tempo futuro dei suoi averi perché non può fare altrettanto con la sua vita?[1]
2)     Parecchi esigono la contemporaneità della testificazione con l’evento infausto della fine della vita[2].
3)     Chi sono gli attori, oltre la persona interessata, che possono interagire nella decisione finale? I medici? I parenti? Un rappresentante legale? Un tutore? Chi altro?
4)     Esiste un diritto all’auto-determinazione da parte del singolo?
5)     Che significa auto-determinazione? Si afferma che l'atto umano è qualificato eticamente se nasce da una deliberazione della persona[3]. In questo senso ogni atto umano nasce da una decisione autonoma della persona. Si tratta di una deliberazione solipsista oppure no?
6)     Il principio di auto-determinazione può essere inteso secondo due significati. Il primo afferma che l’atto è autonomo, quando è regolato coscientemente su un bene da attuare, come ad esempio il rispetto della propria e altrui vita. Esistono, dunque, per la valutazione etica, alcuni punti di riferimento irrinunciabili. Oppure, l'autonomia si manifesta come asserto assoluto del proprio libero arbitrio, in modo auto-referenziale, presumendo un diritto di disporre di sé, della propria vita in qualunque situazione
7)     Il punto di riferimento è la natura umana che si esprime nella legge naturale Molti pensano in questi termini. Per costoro il concetto di natura-legge naturale costituisce il riferimento nodale per tutte le questioni di bioetica.
1.   Un’idea antica che non si può cancellare ma non si sa come pensarla.
L’idea di legge naturale costituisce una concezione molto strutturata, perché si fonda su una tradizione filosofica antica e autorevole. Ma l’elaborazione secolare di questa idea e la sua diffusione fanno sì che sia impossibile parlare di un’unica idea di legge naturale. Essa indica più famiglie di teorie. Tra i pensatori che occupano un posto di primo piano nella storia di questa idea si ricordano Aristotele (384-322 a.C.), Tommaso d'Aquino (1225?-1274), Ugo Grozio (1583-1645), Francisco Suárez (1548-1617), Thomas Hobbes (1588-1679), Samuel Pufendorf (1632-1694) e John Locke (1632-1704) e altri. Carattere saliente, comune alle principali accezioni di legge naturale, è la tesi: le norme etiche sono definite dalla natura umana.
“La teoria della legge naturale è identificabile soprattutto in quella concezione che è convinta di potere rintracciare una lista completa di obblighi, diritti e doveri morali validi in modo assoluto e per tutti gli esseri umani, in qualsiasi tempo e spazio, solo guardando alla natura umana oppure allo stato delle cose”[4].
La natura si veste di un alone di sacralità. Ma è giusto notare che la de-sacralizzazione della natura è stata promossa dallo scossone anti-idolatrico proveniente dalla tradizione giudaica e cristiana. Dio mette in mano all'uomo il suo destino e lo chiama ad elevarsi al di sopra dello stato biologico naturale, affrontando e riplasmando il mondo. Non è chiamato a adorare la natura come un ordine sacro-divino ed immutabile[5].
Che cosa intende il Magistero ecclesiastico cattolico, quando richiama le leggi iscritte nell'essere dell'uomo e della donna? Lo sfondo sul quale si colloca la concezione cattolico-tomista (non tomasiana) della legge naturale è costituito da una visione del mondo che prevede un Dio creatore, responsabile, perché provvidente verso la totalità dell’esistente; anche dell'essere umano. Gli uomini si connettono a un progetto le cui caratteristiche morali appaiono evidenti, se si penetra a fondo il modo con cui essi sono stati creati. Dio creatore ha provveduto un sistema di norme a beneficio dell'esistenza umana, iscritte nell'essere dell'uomo e della donna.
“Opera molto buona del Creatore, la legge naturale fornisce i solidi fondamenti sui quali l'uomo può costruire l'edificio delle regole morali che guideranno le sue scelte. Essa pone anche il fondamento morale indispensabile per edificare la comunità gli uomini. Procura infine il fondamento necessario alla legge civile, la quale ad essa si riallaccia sia con una riflessione che trae le conseguenze dai principi della legge naturale sia con aggiunte di natura positiva e giuridica”[6].

       Per avere un'idea più precisa di legge naturale, è utile leggere un testo di Leone XIII: “(…) la legge è guida all'uomo nell’azione, e con premi e castighi lo induce a ben fare e lo allontana dal peccato. Sovrana su tutto: tale è la legge naturale, scritta e scolpita nell'anima di ogni uomo, poiché essa non è altro che l'umana ragione che ci ordina di agire rettamente e ci vieta di peccare. Invero questa norma della ragione umana non può avere forza di legge se non perché è voce ed interprete di una ragione più alta, cui devono essere soggette la nostra mente e la nostra libertà (…)[7].
Il testo citato ribadisce tre proprietà. La prima: la legge naturale è scritta e scolpita nell'anima di ogni uomo dal Creatore. La seconda: la legge naturale è la natura ut ratio, dicevano gli Scolastici, cioè l'umana ragione che ordina di agire rettamente e vieta di peccare. La terza: ha forza di legge perché è voce di una ragione più alta[8]. La prima affermazione enuncia la genesi della natura umana, da cui scaturisce la legge naturale. La seconda, fa riferimento al modo in cui opera la legge naturale. La terza riguarda la fonte della sua autorità e della sua forza obbligante. L’espressione leonina: l’umana ragione ci ordina di agire rettamente e ci vieta di peccare, indica, dunque, la facoltà con la quale gli esseri umani hanno accesso alla conoscenza delle norme etiche, facendone una guida per l'azione. Un'interpretazione accreditata e teoricamente articolata, concepisce questa facoltà come una forma della ragione pratica, l'attività con cui la ragione orienta le inclinazioni naturali facendole corrispondere ai fini stabiliti dal progetto del Creatore. In questa lettura, la legge naturale non è un dato scoperto dalla ragione, ma “è essenzialmente un’ordinatío rationis ad virtutem”. Non si tratta di una legge dell'essere secondo il significato di legge delle scienze naturali, bensì di una legge nel senso vero e proprio della parola: un praeceptum della ragion pratica[9].
Le affermazioni sembrano confliggere con i risultati della scienza moderna, e dunque dei poteri tecnologici in relazione alla vita dell’uomo[10]. Il riferimento al sapere biologico, perfino biochimico, connota la trasformazione complessiva della pratica medica recente. Non a caso, si parla ormai correntemente di biomedicina. All’approccio biologico si affida la stessa bioetica per fissare i limiti del lecito e dell’illecito. I nuovi poteri tecnologici della biomedicina hanno praticamente l’effetto di interferire in misura sempre più macroscopica sulle forme che assumono esperienze umane radicali, quali la malattia e la salute, il rapporto del soggetto con il proprio corpo, la nascita, l’esperienza del morire. Tali esperienze hanno una incidenza obiettiva, assai rilevante sulle forme complessive della vita intenzionale; e dunque sulla vita della coscienza, sulla vita umana in senso eminente. Esse concorrono in maniera radicale alla strutturazione della complessiva percezione dei significati del vivere. Le forme nelle quali si produce un tale concorso abitualmente non sono state oggetto di consistente attenzione per opera del pensiero riflesso. Fino ad oggi se ne occupano assai più le scienze umane (psicologia, sociologia, antropologia culturale) rispetto a quanto non facciano la filosofia e la stessa teologia. L’ottica propria della biologia, d’altra parte, come quella in genere delle scienze naturali, è per sua natura un’ottica astratta, che rimuove ogni considerazione relativa ai significati dei fatti di cui si occupa. Il modello funzionale di comprensione del corpo umano, cui essa accede, ignora la figura del corpo quale corpo vissuto, del corpo inteso quale organo della percezione significativa del reale. Anche sotto tale profilo si realizza una rimozione della coscienza; l’agire tecnico assegna alla sua competenza insindacabile le opzioni di carattere assiologico, postulando la possibilità che tali opzioni possano realizzarsi a latere rispetto al vissuto somatico. Come la terra intera, anche il corpo umano è ridotto a repertorio di utilità, e non ne è invece riconosciuta la qualità di repertorio di significati. In tal senso le ragioni di bene e di male dell’agire tecnico sono valutate solo per rimando agli apprezzamenti dell’arbitrio individuale.
L’incremento dei poteri tecnici sul corpo umano determina un’ulteriore ragione di urgenza per un chiarimento teorico, che è obiettivamente postulato da sempre. Mi riferisco al chiarimento della distinzione tra legge morale naturale e legge meramente biologica. La ripresa della riflessione sul tema della legge morale naturale impegna alla rimozione della censura che colpisce il corpo vissuto quale luogo originario della coscienza del soggetto. Tale luogo non può ovviamente essere pensato quasi fosse un altro luogo rispetto a quello della prossimità reciproca. La prossimità che accade, che suscita e impegna la libertà dell’uomo, è legata alle forme del vissuto somatico. Per questo il modello concettuale cui si affidano le scienze biologiche per pensare e leggere la vita umana appare a molti inadeguato in una prospettiva antropologica. I nuovi poteri tecnologici, per poter essere usati responsabilmente, postulano lo sviluppo di una riflessione filosofica e teologica sul senso della vita umana. Tale riflessione sulla vita, e cioè sulle prime forme dell’esperienza umana e sul concorso essenziale che esse offrono alla nascita della coscienza, costituisce un capitolo determinante della riflessione sulla legge naturale.
3.   Una legge naturale non naturalistica
La necessità di rivedere l’elaborazione teorica dell’idea di legge naturale impone un ripensamento antropologico. Le discussioni che si producono sia in ambito teologico sia filosofico appaiono spesso pregiudicate dalla persistenza di assunti generali che, per il fatto d’essere solo taciti e presupposti, impediscono l’univocità della comunicazione. Il ripensamento antropologico presenta un tratto comune a tutti: esso deve registrare il canone qualificante della svolta moderna del pensiero, e cioè il teorema della coscienza. Le declinazioni effettive che il teorema conosce, a procedere dalla stessa proposta di Cartesio, concludono ad un’ipostatizzazione del soggetto come res cogitans. L’esito non è certo; al contrario dev’essere evitato e può essere eluso a condizione di riconoscere l’originario e costitutivo riferimento del soggetto, presente a sé solo in quanto riferito ad altro da sé. Conviene elencare nodi nei quali si articola il ripensamento antropologico. I nodi, intrecciati tra loro, non trovano un’interpretazione appropriata teorica nella tradizione scolastica; sembrano essere stati rimossi.
(a)     Un primo nodo è la naturale mediazione del soggetto ad opera di altri, o meglio ad opera della sua relazione con altri. Il soggetto non arriva alla coscienza di sé mediante la ragione, ma attraverso il rapporto con altri; mediante l’esperienza di una prossimità di altri da sé. In tal senso, occorre riconoscere il rilievo originario delle relazioni primarie per venire a capo della identità della natura dell’uomo. Attraverso quelle relazioni sono poste le condizioni che consentono al soggetto di giungere alla coscienza di sé. L’antropologia acquisita e la concezione della legge naturale conseguente non conoscono la nativa qualità dialogica dell’essere umano; proprio per questo motivo non mettono a tema la questione dell’identità singolare dell’uomo. Lo stesso pensiero personalista, pur affermando con forza la natura dialogica dell’essere umano, poco si occupa dei modelli naturali del rapporto umano: uomo/donna, genitori/figli, rapporti personali/sociali.
(b)         È necessario capire la naturale mediazione pratica del soggetto. L’esperienza di prossimità di altri a me è all’origine della coscienza personale e nello stesso tempo a fondamento di ogni imperativo; fonda la libertà come compito costitutivo e si realizza con le forme dell’agire. In tal senso, bisogna correggere un postulato, che appare operante nel pensiero più diffuso, oggi: quello che assegna carattere naturale al soggetto individuale e carattere solo storico, o addirittura convenzionale, ad ogni relazione umana personale e sociale.
(c)     È necessario comprendere la naturale distensione temporale del soggetto, che giunge alla coscienza, quando realizza in atto la propria identità, mediante un lento processo. Il pensiero antropologico della tradizione scolastica non ha categorie adeguate per pensare il processo di identificazione; ignora l’identità quale tratto naturale del soggetto umano. Parlo di identità in un duplice senso: in riferimento all’identità del soggetto con se stesso, attraverso la distensione dei tempi e la dispersione dei luoghi; e con riferimento all’identità che distingue il singolo da ogni altro. Nei due sensi, l’identità è sempre naturale, segnalata come necessità del soggetto. Tale identità rimanda al dramma reale della vita per trovare una determinazione. Solo vivendo può essere cercata; e la ricerca implica la determinazione pratica del soggetto.
(d)    Occorre riconoscere come il compimento del dramma assuma la figura della disposizione libera di sé. In questa figura consiste la libertà: nella possibilità e nella necessità di disporre di sé per giungere all’identità, manifestata attraverso le forme dell’esperienza immediata.
(e)     Una delle espressioni del pregiudizio è quello per il quale il discorso fisico sull’umano, in particolare sulla struttura e la natura (fÚsij) dell’agire, è dato a monte dell’attenta valutazione morale, relativa alla connotazione di bene e di male che qualifica l’agire in questione.
Solo sullo sfondo di un cambiamento antropologico, capace di sciogliere questi nodi, è possibile offrire un’elaborazione del concetto di legge naturale, senza esporsi a critiche del pregiudizio naturalistico.
4.   La tentazione della biolatria.
In questo contesto pongo il problema generale della bioetica. Da tempo si discute sulla contrapposizione tra bioetica cattolica e bioetica laica o, in modo più preciso tra un concetto di bioetica fondato su un'antropologia religiosa-personalista o su un’antropologia basata su criteri altri, non necessariamente negativi, che non implicano alcuna fondazione valoriale di carattere religioso né sono ancorati ad una tradizione filosofica di natura personalista. Come capita in ogni tensione dialettica si arrischiano reciproche accuse, durezze ideologiche, difese apologetiche. Ciò toglie chiarezza e tranquillità al confronto[11]. Se diamo ascolto ai mezzi di informazione sembra quasi che ci sia da un lato una ragione buona che vuole difendere la vita sempre e dall'altro dei cattivi che vogliono negarla. Forse la comprensione, anzi meglio dire l'incomprensione di un mistero più grande di noi, è l'atteggiamento più corretto e, aggiungo, più cristiano. Tutto questo perché? Per difendere un principio? Per difendere l'esistenza biologica ad oltranza, fino all'ultima sussistenza vitale? La sensazione retrostante a tutto questo è che si stia perdendo di vista il senso dell'›toj ed anche del b…oj sia in termini umani sia religiosi. Credo che stiamo transitando attraverso un travaglio che rischia di portarci a distorsioni nella concezione dell'uomo e della vita. Un riduzionismo concettuale, antropologico prima ancora che etico, si affaccia con prepotenza. Voglio indicare tre binomi intesi a chiarire questo riduzionismo concettuale e antropologico[12].
Il primo binomio è costituito dal rapporto tra biofilia e biolatria. Il personalismo cristiano si concretizza in un forte amore per la vita prima ancora che nella sua difesa. Anzi questa nasce da quello. Ne deriva il complesso normativo sull’inviolabilità e la tutela della vita dal concepimento fino alla fine naturale, nonché la legittimazione di tutti gli interventi finalizzati alla sua promozione, negando liceità a quelli che la sopprimono o la negano. È, tuttavia, indispensabile affermare che proprio il Cristianesimo insegna che la vita è un valore primario, ma non assoluto; è un valore penultimo non ultimo, subordinato in una scala gerarchica che non è solo ontologica ma anche storica, in relazione ad altri valori che possono essere superiori come il bene del prossimo o il proprio bene spirituale. Questo criterio dev’essere tenuto presente, quando si parla di difesa, tutela e rispetto della vita; diversamente si cade in una forma di biolatria a matrice paganeggiante. È il pericolo che oggi corre la riflessione bioetica, specialmente di estrazione cattolica, perdere di vista il complesso di valori della vita umana, come pure la sua stessa definizione, ritenendo che sia dovere del cristiano andare a caccia dell'ultimo gemito esistenziale, trascurando la totalità psico-fisica della vita umana, conforme, peraltro, all'insegnamento biblico. Tutto questo va non solo contro il buon senso ma anche contro l’insegnamento tradizionale della Chiesa cattolica circa l'uso dei mezzi proporzionati, sul principio del duplice effetto, sull’adeguatezza criteriologica della morte cerebrale per eseguire il trapianto, ecc. [13]. Dalla sintesi tra b…oj e psØc»  nasce l'¥ntropoj. Privilegiare una delle due parti significa negare l'unità che contraddistingue l’essere umano.
Il secondo binomio contrappone bio-centrismo e antropo-centrismo. Com'è noto, il cattolicesimo ha una visione antropocentrica del mondo. Al presente siamo di fronte al rischio di un nuovo e diverso biocentrismo, non realizzato sul fondamento di un concetto globale e cosmico di vita  ma nella dimensione antropologica. Sono conscio che un soggetto in stato vegetativo permanente non è meno humanitas di un uomo sano. Ma in situazioni conflittuali che pongono a confronto, in un dilemma di priorità, la dimensione biologica con quella antropologica, la prima non può avere un sopravvento mettendo in ombra la seconda, come se questa non contasse.
Il terzo binomio: esiste una dicotomia tra vita biologica e vita biografica, a vantaggio della prima? La lezione biblica consiste nel donarci una concezione di uomo come spirito incarnato e corpo animato: è un Ôloj, un tutto indivisibile, un unicum nel creato. Non puro spirito né pura organicità. A questo uomo occorre guardare con minore trepidazione di non rispettare l'estremo gemito della sua vita biologica ma con la serena consapevolezza di essere stati compagni della sua vita biografica. Non si tratta di negare valore a una vita priva di relazionalità o di favorirne il processo di morte in un atto di eutanasia, ma di comprendere il senso profondo della vita umana che non è puro agglomerato cellulare ma esistenzalità storica[14]. La persona umana, che non sussiste più nella sua integrità, dev’essere libera di giungere alla nuova dimensione finale cui è destinata e per la quale la morte non è castigo ma un dono di Dio. Qui si pone la questione etica.
5.    La questione etica.
La domanda è la seguente: è giusto che una persona sana possa esprimersi preventivamente sulla cura da ricevere o no, quando, in caso di malattia irreversibile, la medicina non può fare più nulla?. La tradizione etica cattolica conosce la distinzione tra cure ordinarie obbligatorie e cure straordinarie o sproporzionate facoltative[15]. Per questo diventa rilevante l'interazione tra il medico e il paziente affinché insieme possano decidere le soluzioni più adeguate. La regola normale dev’essere quella del consenso informato, non come momento burocratico, ma come espressione di una relazione tra il medico, che offre la sua perizia, e il paziente che inserisce le varie possibilità dell'arte medica nel suo contesto di significati e di relazioni. Per questo il testamento biologico, o meglio, le dichiarazioni anticipate di trattamento, potrebbero diventare un mezzo per proseguire la relazione con gli attori interessati, quando il paziente è impedito a comunicare.
E l'accanimento terapeutico? Alcuni sostengono che è meglio usare l’espressione trattamento inappropriato per eccesso, poiché è priva della connotazione morale negativa intrinseca al termine e richiama in modo più concreto i criteri di appropriatezza clinica ed etica[16]. La Chiesa è intervenuta in diverse occasioni provocate dalle scoperte scientifiche e dal progresso della medicina. C’è un confine naturale e morale che segna il limite oltre il quale occorre riconoscere la morte come un evento irreversibile? L'enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II afferma che l'accanimento terapeutico va rifiutato sia dal paziente sia dal medico[17]. Infatti, l'accanimento terapeutico è una distorsione dell'arte medica che perde di vista il bene complessivo della persona per occuparsi solo della patologia, dei dati clinici oppure dei singoli organi ammalati. Quando il processo che porta alla morte è innescato e l'evento fatale è prossimo, penso che una corretta pratica medica deve sospendere ciò che risulta inefficace e qualche volta di aggravio per il malato stesso, pur proseguendo la cura del paziente con le terapie palliative, antidolorifiche, l'assistenza infermieristica, la vicinanza umana e cristiana. Ma quando si richiama il testamento biologico o l'accanimento terapeutico, emerge immediatamente il confine sottile tra l'azione della rinuncia alle cure straordinarie e sproporzionate e la sua conseguenza diretta, la rinuncia alla vita. La trepidazione è di scivolare nella trappola dell'eutanasia. Come possiamo distinguere la volontà di porre termine alla vita rinunciando alle terapie, quando non c'è più nulla da fare, dall’eutanasia? Il documento pubblicato dal Comitato Nazionale di Bioetica il 18/12, 2003, afferma con forza che le Dichiarazioni anticipate non possono superare i limiti etici e legali che sono posti dal paziente nel momento in cui compie scelte consapevoli, quando presente a se stesso, dialoga con i medici.
Nella scelta della terapia o dell'eventuale interruzione della cura, quanto deve contare la volontà del paziente o di un suo rappresentante legale qualora egli non sia più in grado di intendere e di volere, la volontà dei familiari e quella del collegio medico? Tutti questi soggetti devono essere coinvolti nelle scelte[18]. È chiaro che non possiamo affermare, come talvolta accade, la prevalenza di un soggetto sugli altri. Il paziente ha un ruolo centrale, ma bisogna tenere conto anche delle sue relazioni familiari e delle competenze dei medici. C'è una pluralità di agenti che non vanno posti in competizione quanto piuttosto in relazione tra loro. Bisogna pensare a un modello di riferimento non di tipo contrattuale e commerciale ma come alleanza-prossimità terapeutica tra i vari attori. Il medico mette a disposizione le sue competenze e la sua umanità; la sua mission è quella di prendersi cura del paziente. La famiglia deve sostenere il paziente nelle sue scelte, accompagnandolo e rendendo meno gravosa la malattia, in modo particolare nella fase terminale. Il paziente dev’essere in grado di conoscere le sue possibilità, di discernere ciò che è bene e di sceglierlo se ne ha la possibilità o l’ha avuta nel passato.
Il Comitato nazionale di Bioetica avverte il rischio di una violenza burocratica presente nel processo di morte: l'ennesimo documento da firmare! Ma le Dichiarazioni anticipate di trattamento possono assumere, anche, i connotati di un processo progressivo durante il quale il paziente inizia a pensare seriamente alla evoluzione della sua malattia, alla sua conclusione, lasciando l’eventualità di recuperare una personalizzazione del morire. In una cultura in cui la fase terminale dell'esistenza è rimossa, il paziente inizia a pensare alla propria morte: in questo la tradizione cristiana ha molto da offrire. Può essere l'occasione per il recupero di elementi importanti, come la decisione di morire in ospedale o a casa in un contento di relazioni affettive significative. Questo contribuisce a invertire la tendenza della secolarizzazione della morte che è tipica della nostra cultura. Inoltre la fine della vita è un evento che va collocato all'interno del mondo di valori, significati e relazioni che appartengono alla vita di ogni individuo. Ed è questa, nel senso proprio la buona morte: quella che corrisponde alla dignità umana autentica.
Tutto chiaro? Credo proprio di no. Nonostante la svolta personalista, confermata dal Concilio Vaticano II, il modello di argomentazione al quale si ricorre, quando si tratta di valutare la liceità o meno di comportamenti fisicamente definiti, è ancora quello naturalistico. Un esempio può chiarire l’affermazione. Il tratto incompiuto della svolta personalista si manifesta attraverso il lessico di due significati, presenti nell’atto coniugale: unitivo e procreativo. I due aspetti sono giustapposti; e questo nasce da un riflesso obiettivo di un difetto di comprensione del loro nesso. Si tratta di un accostamento. Che sia così, appare dalla condizione teorica: ciò che impone il significato procreativo deve essere costituito a priori dal significato procreativo, a prescindere da ogni considerazione relativa al significato unitivo. Nel medesimo modo ragiona la Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II che in diversi passaggi espone la parte fondativa della morale: la legge naturale immutabile, universale, evidente alla ragione ragionante, contempla a-storicamente la costituzione creaturale dell'uomo, astraendo dalla sua relazione storica con Cristo e dalla storia del riscatto dalla natura fisica[19]. Simile artificiosa divaricazione, fra lo statuto creaturale e la rivelazione cristiana, oscura il dato primario: Dio ha,  sin dal principio (en archè», afferma l’evangelista Giovanni nel Prologo al suo Vangelo), eletto l'uomo in Gesù Cristo.
Simili sincretismi sono presenti anche in un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede (1/8/2007). Il testo è la risposta ai quesiti posti della Conferenza episcopale Usa in tema di nutrizione-idratazione artificiali per soggetti in stato vegetativo permanente. Di là della discussa tesi che simili trattamenti siano naturali oppure no, proporzionati e ordinari tecnicamente o no, disponibili e doverosi moralmente, ciò che non convince nella risposta della Congregazione per la dottrina della fede è il tentativo di formulare un giudizio morale su un'azione descritta dall’esterno, astratta rispetto al contenuto personale storico e dalla considerazione delle intenzioni dell'agente morale. In altri termini, alcune visioni etiche, che si dichiarano personaliste, presumono di prescindere dall'interpretazione del significato del gesto, perché pensano di poterne definire in termini materiali il contenuto, mutilando quest'ultimo delle sue dimensioni simboliche, ponendo a priori un solo significato con l’applicazione di principi apodittici, chiari, validi senza alcuna eccezione e la cui conseguenza normativa è posta a monte di qualsiasi rivelazione storica, compresa quella cristiana[20].
                            
La versione sillogistica di tale impianto fondativo rischia di ignorare la prudenza pratica della lunga tradizione tomasiana, di impoverire la ricchezza della lezione fenomenologica e di quella ermeneutica, di svalutare la necessaria rilettura biblica e cristologica del senso della natura. Resta aperta la questione del passaggio da un'ottica personalista ad una vitalista nell'ambito della morale cattolica. Mi sembra chiaro il circolo vizioso: fornire ad un paziente in stato vegetativo permanente il nutrimento sarebbe un mezzo ordinario e proporzionato per la conservazione della vita; un mezzo naturale, moralmente doveroso, se allontana la morte. Ma allontanare la morte per inanizione è moralmente doveroso, se si dispone di un mezzo adatto per farlo. La circolarità argomentativa evita di occuparsi della questione etica primaria. Che cosa è moralmente doveroso, per la tradizione cristiana: esprimere prossimità ad un malato terminale o prolungare la sua vita? Stabilire con lui un'alleanza di cura, che implichi un’attenta valutazione dei doveri e dei desideri che un soggetto ritiene preminenti, oppure garantire un adeguato equilibrio metabolico sul piano nutritivo? La natura dello uomo coincide con l'omeost£sij del suo organismo o con la fedeltà a valori supremi, che qualificano come degno il suo morire? La dottrina cattolica, a questo punto, mette in campo il concetto di persona.
6.   Il concetto di persona.
Il riferimento principale in etica è alla persona. Perciò si devono ricondurre i valori principali (l'autonomia da onorare, la salute da sostenere, la giustizia da salvare, il rispetto della libertà e la difesa della vita) al valore della persona interamente considerata. Ciò che costituisce il criterio di giudizio ultimo per le decisioni concrete è il bene della persona e non i beni particolari presi a sé stanti ed assolutizzati, ad es. il prolungamento della vita, la guarigione di una parte corporea, l’annullamento di certi sintomi, la guarigione di una parte e così via.
Ma cos'è la persona? Che cosa capisco con questa cifra, che vorrebbe restituire la ricchezza speciale dell'uomo? Con pericolosa brevità si può dire. Persona è una coscienza in situazione corporea o un corpo attraversato dalla coscienza, cosicché le espressioni ho un corpo e sono un corpo sono entrambi legittime, perché la stessa identità soggettiva attraversa la corporeità vissuta. Ma non si può dire che essa sia presente nello stesso tempo ed allo stesso modo in tutte le sue parti[21]. L’identità soggettiva abita sempre una parte corporea, che agisce da punto zero della conoscenza, inavvertibile a sé e tematizzabile solo riflessivamente, per gli scarti che il movimento coscienziale rivela, nelle sue continue trasgressioni prospettiche.
Per queste ragioni è errato affermare che il corpo e la coscienza sono parti della persona, ricostruibile soltanto sommandole. Corpo e coscienza sono piuttosto aspetti del medesimo intero (Ôloj), del quale non si possiede un'immediata conoscenza oggettiva, ma che può essere congetturato come il soggetto di cui le diverse sensazioni ed operazioni (affetti, volizioni, pensieri vari, parole) sono simbolo. Si avverto che in noi e nell'altro c'è una realtà altissima, dotata di capacità impareggiabili, quali il parlare, l’auto-determinarsi, il ragionare. Lo percepisco dai frammentari segni, in cui la struttura ontologica della persona si esprime. Ma ipotizziamo, nello stesso tempo, che la persona esista di là di quei segni, perché a volte non si riesce a rilevare empiricamente alcun indizio attuale che quella persona sta pensando, ragionando e così via. Il dormiente, il feto, il comatoso possono essere considerati ancora quell'altissima realtà, anche se essa non esprime al presente tali doti? Egli è già ciò che ancora non esercita e che purtroppo non è più in grado di esercitare. Ma come fissare il punto in cui la persona comincia o finisce? Il punto in cui manca quella realtà, le cui proprietà simbolicamente e a intervalli la manifestavano? Qual è il momento in cui l'intero umano (Ôloj) che precede la scansione corpo-coscienza, è venuto meno? È questo il difficile passaggio bioetico, inevitabilmente indiziario, su cui molte tesi si scontrano[22]. Il contrasto di opinioni è comprensibile, perché l'etica non viene a rimorchio della teoresi e i dati scientifici sono letti diversamente secondo le diverse preferenze ideologiche dello studioso e delle sue propensioni morali.
A questo punto, espongo brevemente la mia posizione. Poiché la coscienza (una delle proprietà dell'essere persona) a volte si manifesta all'esterno e a volte no, dobbiamo basarci sull'integrità del corpo come segno che la persona sussiste. Il corpo, infatti, non è una parte della persona, ma il tutto della persona vista secondo un determinato aspetto. Pertanto non è ammissibile divaricare corpo e coscienza ed attribuire solo a quest’ultima ed alle sue operazioni il valore supremo. Ne consegue che ciò che ha valore personale non sono gli atti, ma il soggetto che li può porre in essere; e un soggetto può essere qualificato come vivente finché è vitale la dimensione corporea che lo costituisce, cioè finché si conserva il principio che ne ha sorretto diacronicamente lo sviluppo e ne coordina sincronicamente la funzionalità in un tutto coordinato. Come si sa la Commissione di Harvard, con una decisione che oggi è tornata ad essere discussa, ha identificato nel sistema nervoso centrale (l'insieme di corteccia e tronco encefalico) il sistema critico che garantisce il coordinamento spontaneo delle diverse parti e funzioni che compongono l'insieme unico del corpo umano.
Si può dunque fare una distinzione. Nella concezione empiristica o funzionalistica di persona, la personalità (ciò che fa persona la persona) compete agli atti, tramite i quali si esprimono le qualità più alte dell'uomo: la razionalità e l'autocoscienza. Il riconoscimento pieno e quindi il rispetto spettano alla persona nella misura in cui questa è in grado di compiere un'attribuzione di valore rispetto alla propria vita ed alle alternative che si trova di fronte[23]. Nella concezione ontologica, invece, la personalità compete non primariamente agli atti di coscienza che possono esserci e non esserci e sono solo un segno della complessità del soggetto vivente una persona compie, ma alla forma ontologica che li rende possibili e di cui la cessazione del funzionamento del corpo umano come un tutto coordinato segnala la persistenza vitale[24]. La qualifica di persona e dunque il rispetto come persona, competono all’essere umano dalla nascita alla morte, anche se a causa della malattia il soggetto vivente come organismo singolare ed unitario non riesce a svolgere prestazioni superiori. La malattia non degrada la dignità intrinseca di una persona, ma la imprigiona, la soffoca, rendendo difficile o addirittura inattuabile l’esercizio di funzioni personali superiori. Ma finché la malattia non conduce a morte sicura quel corpo, non ne altera il rango ontologico. Non esistono pertanto membri della specie umana che non siano persone.
Quindi, ogni essere umano possiede massimo ed eguale valore. Anche negli stati marginali non avviene un degrado ontologico verso forme di vita infraumana. La persona è coestensiva all’organismo corporeo umano dalla nascita alla morte, in quanto solo alla morte avviene la perdita dell’omeost£sij (la cessazione del funzionamento del corpo umano come un tutto coordinato) e dunque viene meno quell’identità corporea individuata, che è l'aspetto più oggettivabile della persona. I caratteri essenziali di un ente non posseggono un più o un meno. Ci sono o non ci sono. Infatti, se il possesso attuale della coscienza fosse una proprietà necessaria per attribuire ad un soggetto la natura umana, la privazione della coscienza renderebbe quell’individuo non solo non persona, ma anche non uomo; tesi difficilmente sostenibile. Se invece si vuole distinguere entro il genere uomo una specie persona e si vuole ascrivere a quest’ultima i soli individui umani coscienti, si deve ammettere che l’uomo in stato vegetativo permanente non ha coscienza, anche se accidentalmente può averla e dirsi allora persona.  Invece l’uomo non più cosciente fa scandalo proprio perché non riesce a pervenire all’espressione delle sue qualità naturali.
Per questi motivi, l’attitudine di cura che abbiamo nei confronti della persona malata va estesa ai suoi stati marginali, anche incoscienti. Ed anche in questi casi va rivolta alla complessità del suo essere e non ridotta alla tutela di aspetti parziali, ad esempio biologici, della sua esistenza. Avere cura dell’altro non coincide con il prolungarne ad ogni costo la vita, né con il toglierne ad ogni costo il dolore, né con il preservare l'equilibrio metabolico che l'inanizione minaccerebbe. Può coincidere con questi atti determinati, ma può anche non coincidere con essi, poiché nessuno di essi costituisce un valore supremo. I gesti parziali (di sostegno vitale o di lenimento del dolore) hanno valore nella misura in cui esprimono quell’attitudine di cura e lo perdono nella misura in cui la tradiscono. Portare rispetto alla persona malata come un fine, cioè incondizionatamente, significa dunque trattarla in modo che dischiuda al massimo la dignità, i valori propri. Così, quando il corpo che vive non è più attraversato da coscienza, la persona non ha perso valore in sé. Ciò che tuttavia, in certe situazioni, potrebbe aver perso valore è il durare di quel corpo, il suo essere trattenuto ad ogni costo nella vita. Lasciare morire un corpo a causa di un’inguaribile malattia può significare consentirgli di vivere, fra le diverse alternative biografiche che si aprono , quella in cui il valore della persona si dispiega maggiormente, quella più carica di senso alla luce dei valori, dello stile di vita che quel soggetto ha fatto suoi. Come si vede, solo una prospettiva simbolica-narrativa, che consenta di siglare un'alleanza con gli effettivi desideri di un malato e nella fedeltà del suo stile biografico (se credente, dell’itinerario di fede) consente di discernere le valenze personali delle decisioni cliniche. Trattare tutti con la stessa dedizione non significa compiere materialmente gli stessi gesti perché diverso è il senso che essi assumono entro il contesto di un’esistenza volta in maniera originale e irrepetibile ad un bene incondizionato.
7.    Il volere libero.
Rimane da considerare un ultimo aspetto del problema. Cosa deve accadere perché un assetato sia libero di non bere? Se l'assetato fosse ridotto al puro sentire sete, non sarebbe libero di non bere se comparisse l'acqua. Ho detto del soggetto. E l’oggetto? Chi è solo sete, vede solo acqua. In questo senso, il termine del suo tendere è l'acqua e quella soltanto. L'acqua è rigorosamente il tutto per l’assetato. Come meravigliarsi se il soggetto vive queste situazioni come in assoluto il tutto? Manca una possibilità alternativa. Manca un avvenire. Per una simile coscienza il tempo si è fermato. Gli istanti sono sempre uguali. Il presente si prolunga sempre identico a se stesso. Il gesto si ripete monotono. Al limite, è il meccanismo delle idee ossessive[25]. L'oggetto e la nota di valore corrispondente definiscono tutta quanta l'intenzionalità del soggetto. Forse limitandoci a descrivere la logica interna di queste situazioni non si potrebbe neppure dire che l'oggetto limita l'orizzonte del soggetto e lo costringe entro confini ristretti. No, tutto è là, dato perfettamente: la bevanda e il tendere ad essa. Null'altro appare: l'eventuale deserto o l'eventuale mattina d'estate sui monti non hanno importanza maggiore di un decoro convenzionale, sono cornice. Il mondo si è semplificato per il nostro assetato e il tempo si è schiacciato: un istante unico, dominato da una figura unica. Nihil ultra, sia ex parte obiecti sia ex parte :subiecti. Ora il nihil ultra è la definizione del totale, del perfetto, del concluso in sé stesso, che non rinvia ad un altro. Nulla da chiedere, perché nulla manca. Meglio: nulla si annuncia come assente, nulla si dà come mancante.
Ma nei casi normali chi è assetato è nello stesso tempo un’infinità di altre cose: desiderio di amicizia, di lavoro, di riposo, ecc. È tutto questo, ed insieme nulla di tutto questo. È più o meno intensamente sempre al di là di se stesso, al di là del suo cogliersi come interessato a questo o a quest'altro. Emerge da quella logica; è oltre la puntualità del voler bere. Un futuro diverso si profila. Nuove sollecitazioni appaiono. Cento sono le sollecitazioni attuali e mille quelle che si annunciano. Vi è un avvenire, non il ripetersi monotono del presente. Tale persuasione non è data in modo riflesso, tematico: non mi scopro libero cosi come, se ci penso, mi scopro con i piedi sotto la tavola. Non c'è proprio nulla da scoprire in questo modo: la libertà non è un oggetto misterioso o una proprietà dell'anima da dis-velare. È l'esistere tanto acceso e incandescente da poter sottrarsi al fascino di questo e al timore di quello. Ciò significa anche che la libertà non è una proprietà dell'uomo cosi come sono sue proprietà il peso o il colore dei capelli. Dire con una formula generale: l'uomo è libero, non significa attribuire all'uomo una caratteristica costante, uniforme in intensità, qualcosa che sempre lo accompagna. La libertà è come il guizzare improvviso di una fiamma, ora più alta ora più bassa. Spesso sembra covare sotto la cenere. Un colpo d'ala, cosi è la libertà. È un attimo che non si può immobilizzare. Anche per questo motivo è difficile bloccarla e scrutarla. La libertà è l'intensità di una forza. Meglio: di un’intenzionalità. Quale? Nella Scolastica è detta volontà, che è l'attivo emergere, oltrepassare la logica soggettiva della sete, della paura, del temibile.
Questa è solo una faccio della medaglia. Oltre essere libero, l’uomo ha davanti a sé la scelta effettiva. Nella situazione di non libertà vi è una sola via. Il soggetto libero apre molte strade per poi sceglierne una. Si è ancora nell'uno, non più nei molti. Ma quest'uno è voluto. Allora tutto muta. Si vuole, non per la ragione tanto perentoria quanto senza ragione che non-potevo-non. Solo cosi vi è un soggetto responsabile sottratto al ciclo inevitabile delle stagioni e degli astri, al ritmo della danza universale. L'atto di scelta ha il nome di elezione (electio). La parola suggerisce l'atto del privilegiare l’uno rispetto a molti. La libera scelta appare animata da una persuasione del seguente genere: questo è per me il migliore e questa è la ragione del mio privilegiare. Se cosi non fosse la scelta sarebbe arbitrio puro, scommessa, evento privo di senso che sopraggiunge non si sa perché. Come il clinamen degli atomi di Epicuro: un caso allo stato puro. In realtà la scelta è sempre capita da chi la vive come scelta motivata e fondata su un perché valevole e in tal senso vero e oggettivo. Gli Scolastici dicevano cieca una volontà alla quale non appare la ragione oggettiva della scelta. Con una formula densa mi sembra di dover affermare: la scelta cosciente è coscienza delle ragioni che la giustificano come scelta. La preferenza è motivata come preferenza.
Sorge spontanea un'obiezione. È un tentativo di razionalizzare la scelta, mettendo tra parentesi il soggetto, il protagonista attivo di tutta la vicenda. Se la scelta dev'essere motivata da un valore che è dato come maggiore o minore, come non concludere che, quando il soggetto è posto di fronte a due alternative assiologicamente diseguali, egli deve aderire al bene maggiore? Se non la fa, cade nell'insensatezza, nell'arbitrio quasi patologico. L'obiettante dà per scontato un dettaglio essenziale; egli pensa il soggetto libero come colui che si trova di fronte a un bivio. Ma questo non è solo un modo di non capire la libertà; è anche un sottile ingannarsi su cosa sia la soggettività. Il ruolo del soggetto è ridotto a quello di spettatore di una vicenda che si gioca in lui, ma di cui lui non è parte attiva. Alle volte i protagonisti di questa vicenda sono i valori diseguali, dotati ciascuno di un proprio peso specifico; talora sono diseguali inclinazioni che il loro titolare deve limitarsi a soppesare, cosi da poter prendere atto verso quale direzione pende l'ago della bilancia. La libertà sarebbe la semplice trascrizione operativa di codesto pondus maius e sarebbe quindi concepita sul modello di una facoltà di esecuzione. Oppure, in maniera più sottile, potrebbe pensarsi che compito della libertà sia informare la sensibilità della ragione. Anche in tal caso il soggetto libero sarebbe ridotto a luogo ion cui si celebra una vicenda. Spettatore del dinamismo di due facoltà concorrenti (nell'ipotesi: la sensibilità e la ragione) e registratore fedele del risultato. La coscienza sarebbe il teatro di un dramma che riguarda il soggetto, ma che a ben vedere avverrebbe in lui senza di lui.
I viventi non liberi, affermavano gli Scolastici, magis aguntur quam agunt. Interpreto l’espressione cosi: gli atti dei viventi non liberi sono momenti di una vicenda che li sorpassa, momenti di un qualcosa di più grande che si costruisce in essi senza di essi. Non vi è, infatti, chi può assumere questa logica. Cotesto qualcuno (il soggetto) è assente. Come si vede comprendiamo l'assenza del soggetto in unità con il comprendere l'assenza della libertà. Ribadisco la connessione tra soggettività e attiva costituzione del proprio comportamento. Tommaso direbbe che l'uomo (meglio: il soggetto spirituale) "est sibi ipsi et aliis providens”[26]. E con tale parola egli intende esprimere l'idea di un’inventività efficace. Infine, porre un comportamento come proprio significa dargli attivamente un senso. Non è solo fare sì che un determinato evento ci sia piuttosto che non ci sia! Questa idea assimila l'evento tutto speciale che chiamiamo agire a un evento obbiettivo, intelligibile in se stesso, senza alcun interno rimando ad un’intenzionalità del soggetto. Auto-motivare il proprio agire (ossia agire liberamente) equivale a costituirlo tale e tale: come gesto di cortesia, come gesto estetico, come atto di lavoro, come gesto di amichevole vicinanza o gesto di aggressività. L'automotivarsi è un attivo dare senso alla propria condotta, non è solo il neutro farla essere. Significa porla come avente un volto piuttosto che un altro. Questo senso è della condotta e le appartiene in forza di un volere che farà diventare attuale un motivo, divenendo esso volontà cortese, mercantile, aggressivo, conquistatore.
Ma vi è qualcosa di più. Nell'atto di dare senso alla propria condotta si gioca un'avventura più ampia: entrare in un rapporto effettivo con il mondo in un modo piuttosto che in un altro. Il comportamento è quello che è (un fatto umano): in esso qualcuno si è affacciato al mondo. Questo affacciarsi al mondo è un effettivo trattare in un certo modo il mondo, e nello stesso tempo è un effettivo atteggiarsi in certo modo, un costituirsi come: come eroe o come mercante. Il qualcuno ha preso nome. Anzi se lo è dato in diuturna fatica o in un istante. Se lo è dato perché lo è diventato. Scegliere il comportamento cortese piuttosto di quello piacevole ha ben poco a che vedere con una lotta tra termini concorrenti. La libertà non è l'arbitro di questa lotta, nonostante molti la pensino proprio come una facoltà arbitrale. Ma, anche lasciando da parte la lotta, la scelta non è assimilabile al semplice dire di si a uno e no all'altro. Scegliere tra due è porre uno dei due. L'accento va posto più sul secondo termine che sul primo. Che l'uomo abbia tale potere di attiva costituzione del proprio comportamento è questo il miracolo della libertà[27]. Ciò significa che la libertà non va capita in termini estensivi e oggettivi: avere di fronte a sé tante, innumerevoli strade aperte, infiniti possibili da realizzare; ma in termini intensivi, porsi come colui che attualmente immette un senso nel proprio agire e che lo costituisce tale e tale.
Abbiamo un corpo e siamo un corpo[28]. Di volta in volta coincidiamo con il nostro corpo e lo trattiamo come il rifugio più sicuro ed ospitale; oppure siamo sorpresi e spiazzati da ciò che nel corpo accade. L’evento che apre e atterrisce il nostro desiderio, quello che la tradizione biblica chiama episodio di prova, accade nelle carni carezzate o bruciate, paralizzate o riabilitate. Nella storia di queste carni tormentate ci si imbatte in una buona notizia l'annuncio del Vangelo. Qui si apre il compito, che è morale prima di essere clinico, di acconsentire oppure di rifiutarsi alla promessa di una liberazione, che accende il nostro desiderio e lo invita a narrare attraverso e al di là del male un finale degno, in cui la morte non ha l’ultima parola.


[1]   È banale. Si dimentica, probabilmente, che è diverso disporre dei propri beni materiali dal decidere sulla fine della propria vita.
[2]   Come è possibile, se non attraverso una decisione che precede l’infausto evento di una condizione di stato permanente vegetativo?
[3]   Già S. TOMMASO distingueva tra actus humanus et actus hominis : il primo esiste se il soggetto lo vuole; il secondo accade simpliceter.
[4]   LECALDANO E., Etica, Utet, Torino 1995, p. 125.
[5]   In certi testi del Magistero cattolico si trova un ambiguo sovrapporsi di opzioni personalistiche con altre di richiamo naturalistico. Si legga l’enciclica Donum Vitae nei passaggi in cui si definisce la natura dell'atto sessuale, per concludere che la decisione procreativa è garantita dal rispetto della natura intrinseca dell'atto, definibile a prescindere dalla comprensione del contesto storico, intenzionale, affettivo entro il quale qualsiasi  atto umano acquista significato tico.
[6]             Catechismo della Chiesa cattolica, 1997, n. 1959.
[7]             LEONE XIII, lettera enciclica Libertas praestantissimum 1888, n. 45.
[8]   Da buon tomista quale era Leone XIII forse avrebbe dovuto usare un testo importante di S. Tommaso: “Respondeo dicendum quod, sicut supra dictum est (Cfrr. I-II, q. 90, a. 1, ad 1) lex, cum sit regula et mensura, dupliciter potest esse in aliquo: uno modo, sicut in regulante et mensurante; alio modo, sicut in regulato et mensurato, quia inquantum participat aliquid de regula vel mensura, sic regulatur vel mensuratur. Unde cum omnia quae divinae providentiae subduntur, a lege aeterna regulentur et mensurentur, ut ex dictis patet (art. praec.); manifestum est quod omnia participant aliqualiter legem aeternam, inquantum scilicet ex impressione eius habent inclinationes in proprios actus et fines. Inter cetera autem rationalis creatura excellentiori quodam modo divinae providentiae subiacet (Cfrr. I, q. 22, a. 2, ad 4; q. 103, a. 5, ad 2-3), inquantum et ipsa fit providentiae particeps, sibi ipsi et allis providens (Cfrr. C. G., III, 78). Unde et in ipsa participatur ratio aeterna, per quam habet naturalem inclinationem ad debitum actum et finem. Talis participatio legis aeternae in rationali creatura lex naturaíis dicitur” (S. Th. II, q. 91, a. 2).
[9]             Cfr  RHONHEIMER M., La legge naturale, Armando Editore, Roma 2001, p. 170.
[10] Occorre ricordare chela categoria vita è stata assegnata troppo in fretta alla competenza, quasi esclusiva, del sapere biologico.
[11] È quanto si è verificato in questi ultimi tempi: prima con il caso Eluana Englaro ed altri simili, poi con uno scritto di L. Scaraffia, pubblicato dall’Osservatore Romano il 6/9/2008. In seguito con i diversi interventi delle Gerarchie Ecclesiastiche della chiesa cattolica, infine la confusa analisi teologica morale contemporanea. Vedi l’editoriale a firma di A. FIORE, Il caso Englaro, in Medicina e Morale, 5 (settembre-ottobre 2008) 933-936.
[12]   Faccio notare che riduzionismo o relativismo non è sinonimo di relazione-relatività.
[13]   Il 40° anniversario del rapporto di Harvard del 1968,della definizione di morte encefalica riapre la discussione scientifica in ambito cattolico, al cui interno l'accettazione dei criteri di Harvard ha costituito un tassello decisivo per molte questioni bioetiche sul tappeto. Al tempo stesso alla chiesa cattolica costa rimettere in discussione uno dei pochi punti concordanti con il pensiero di esponenti. La Pontificia Accademia delle Scienze, che negli anni Ottanta si era espressa a favore del rapporto di Harvard, nel 2005 è tornata sul tema con un meeting su I segni della morte.
[14] Vedi GUERRA LOPEZ R,  Por una bioetica sin adjetivos (III) . Importancia de las relaciones entre ética y biologia para la constitición de la bioetica, Medicina e Morale   5 (2008) 955-975.
[15] Cfr Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2295 e nn. 2278-2279. I testi si pongono nell’ottica del rispetto della vita umana e del rifiuto dello accanimernto terapeutico.
[16] Così si esprime il Documento della Società Italiana di cure palliative sulle Direttive anticipate, Società Italiana di cure palliative, versione internet del 9.11. 2007.
[17] Giovanni Paolo II, enciclica Evangelium vitae, n.
[18]   Voglio ricordare che esistono convenzioni internazionali come la Carta di Oviedo sui diritti umani e sulla biomedicina, che attestano l'importanza di considerare attentamente le preferenze espresse dal paziente.
[19] Giovanni Paolo II, enciclica Veritatis splendor,  n.
[20] Che programmare e realizzare l’dratazione/nutrizione artificiale equivalga alla somministrazione di cibo ed acqua, implica una delimitazione e una concentrazione circostanziate e non neutrali; ed un viraggio semantico semplificante. Ciò che comunemente chiamiamo dare e ricevere cibo ed acqua è cosa diversa da ciò che connotano questi atti medico-assistenziali.
[21] Cfr  MELCHIORRE V.  Essere e Parola, Vita e Pensiero,  Milano 1982.
[22] Cfr CATTORINI  P.,  Dieci tesi sullo stato vegetativo persistente in Medicina e Morale, 5 (2006) 927-954.
[23] Cfr CORRADINI A.m, Fondamenti della bioetica e concezioni della persona, in Per la Filosofia (1992) 25, 53s.
[24] Omeostasij. In biologia indfica l'attitudine propria degli organismi viventi, siano essi cellule, individui singoli o comunità, a mantenere in stato di equilibrio le proprie caratteristiche al variare delle condizioni esterne. Essendo il vivente un sistema aperto, il mantenimento delle condizioni interne è effettuato da meccanismi automatici (dispositivi omeostatici) che regolano il flusso continuo di materiali ed energia attraverso il sistema stesso. Ne è un esempio la capacità, propria dei mammiferi e degli uccelli, di mantenere la temperatura corporea ottimale al variare della temperatura esterna e della quantità di calore prodotti nei processi del metabolismo (omeotermia).
[25]  Sul tema, Cfr i saggi di MINKOWSKI e GEBSATEL in MINKOWSKI‑GEBSATEL‑STRAUS, Antropologia e Psicopatologia, Milano 1967. Sono saggi di analisi fenomenologica di fatti psicopatologici, nei quali è messa in forte evidenza la connessione tra libertà e temporalità vissuta.
[26]  S Th I-II, q. 91, a. 2.
[27]   se si vuole cogliere sul vivo, sorprendere sul fatto l'atto libero, non si deve pensare a scelte di poco conto, del tipo stare fermo oppure camminare, alzare o abbassare il braccio, andare a destra piuttosto che a sinistra. In tali eventi guida l'automatismo e anche quando li ponessi volendo sperimentare la mia libertà (dicendomi riflessamente: In questo istante sono ben consapevole del mio poter andare a destra o a sinistra, ciò che avvertirei sarebbe sempre un'ombra esile della libertà; al limite dovrei dirmi piuttosto condizionato da fattori imponderabili che sfuggono alla coscienza. In tali ipotesi infatti si spegne la stessa vitalità della coscienza. Essa è quasi disciolta nel puro indifferente. Dove vi è indifferente vi è povertà di coscienza. Al contrario si dovrebbe pensare a istanti di intenso interesse, a scelte importanti e compromettenti, dove ne va parecchio di me (cfr DE FINANCE, Essai sur l’agir humaine, P.U.G. Roma 1978, pp. 242‑251).
[28] La fenomenologia insegna a distinguere il corpo come semplice oggetto (Körper, qualcosa che abbiamo), dal corpo come presenza soggettiva (Leib, qualcosa che siamo).
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